Politica estera

La furia di Erdogan a tre settimane dal voto. Oltre 100 arresti

In manette pure giornalisti, avvocati, attori. Per Ankara sono "fiancheggiatori del Pkk"

La furia di Erdogan a tre settimane dal voto. Oltre 100 arresti

L'orologio della democrazia turca corre veloce. Si vota il 14 maggio. E se fino a pochi giorni fa il presidente Recep Tayyip Erdogan continuava a spingere sulle promesse di ricostruzione, visto il sisma che il 6 febbraio ha devastato dieci province dell'Anatolia meridionale spalancandogli la via di una facile propaganda, ieri il sultano ha rispolverato la tattica dell'intimidazione degli avversari, ordinando arresti di massa, anche nelle zone colpite dal terremoto.

Almeno 110 persone fermate in 21 province. Avvocati, giornalisti (11), politici, membri di ong, attivisti, perfino attori. Le famiglie dei fermati hanno respinto l'accusa d'essere «vicini al Pkk», lanciata dal governo per giustificare i blitz. Un classico. Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan attivo dal '78 soprattutto nel Sud-Est della Turchia viene infatti tirato in ballo a ogni emergenza dal sultano, per tamponare le falle nella sua azione politica: successe anche a novembre, quando nell'attentato a Istanbul, che lì per lì nessuno sembrava in grado di decifrare, Erdogan si lanciò con un riflesso incondizionato nell'indicare il Pkk come responsabile, che invece smentì ogni coinvolgimento. Ora non ci sono bombe a cui dare una paternità. Ma un presunto pericolo terrorismo che secondo la polizia aleggerebbe sul voto a causa di finanziamenti al Pkk; da parte proprio degli arrestati.

È però piuttosto la realtà della situazione turca, che vede un tasso medio di inflazione al 72,3% contro il 19,6% del 2021, e una crisi economica profonda a impensierire i cittadini. E con l'effetto degli annunci post-sisma che si sta esaurendo, e i prezzi dei beni di prima necessità che aumentano, Erdogan deve soprattutto affrontare in patria le opposizioni. Per la prima volta dopo anni si sono date una forma più competitiva, anche ieri denunciando in coro l'ennesimo «tentativo di intimidazione». La coalizione di sei partiti è guidata dal 74enne leader repubblicano Kemal Kilicdaroglu: è il cosiddetto Tavolo dei sei che cresce e promette maggior libertà di espressione e indipendenza dei magistrati; strizza l'occhio all'Ue (evocando la ripresa dei negoziati di adesione) e assicura la liberazione del leader pro-curdo Selahattin Demirtas, detenuto dal 2016.

Fino a pochi giorni fa anche Erdogan, che i sondaggi danno in affanno/rincorsa sul principale rivale Kilicdaroglu (del Chp), insisteva nel vantare mezzo milione di precari assunti nella pubblica amministrazione e altre promesse: dalla cancellazione dell'età pensionabile per 2 milioni di lavoratori che hanno maturato 20-25 anni di attività (sconfessando i 60 anni per gli uomini e i 58 per le donne), alla rivalutazione dei salari minimi fino al taglio delle bollette di gas e luce. Lo smacco subìto però nel fine settimana, col successo del video del rivale, che in rete ha superato 110 milioni di visualizzazioni, deve averlo convinto a cambiar strada: non più solo lasciare impuniti gli attacchi contro le sedi Chp, pure ricorrenti. Ma tornare ai blitz di Stato, che Human Rights Watch bolla come «chiaro abuso di potere». L'avversario, soprannominato il Gandhi turco, ha intanto disegnato la sua concezione di governo: «Non si tratterà più di identità, ma di risultati, non parleremo più di separazioni ma di sogni comuni».

Dicendosi membro della comunità alevita, la minoranza che professa un islam più egualitario, con le donne invitate a pregare accanto agli uomini; non nella moschea, ma in una cemevi (casa comune), ha spiazzato Erdogan, che ha azionato un ennesimo, disperato repulisti in patria.

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