Cronache

"Il gesto d'orgoglio di un liberale intransigente. Si sentiva perseguitato per non aver fatto reati"

Il ricordo dell'ex presidente della Regione: "Ha lanciato il grido di un innocente"

"Il gesto d'orgoglio di un liberale intransigente. Si sentiva perseguitato per non aver fatto reati"

Un gesto di orgoglio. Non ha dubbi Enzo Ghigo, dal 1995 al 2005 presidente della Regione Piemonte: «Angelo Burzi era un liberale intransigente e non ha retto al processo, alla condanna appena arrivata nell'appello bis, ad una situazione che in definitiva sentiva come ingiusta».

Burzi era stato coinvolto nella cosiddetta inchiesta Rimborsopoli e come tutti gli altri consiglieri regionali era stato accusato di peculato. Forse si aspettava l'assoluzione?

«Tante volte negli anni io e lui abbiamo parlato di questa storia avvilente e umiliante. Lui viveva di politica e non poteva immaginare che dalla politica potesse arrivare la sua condanna. Si considerava innocente e a questo punto ha deciso di rompere il meccanismo con una protesta clamoroso come il suicidio: ha preso in mano la pistola e la sera della vigilia di Natale si è sparato nella sua casa di Torino».

Ma perché un gesto così forte?

«Credo che Burzi fosse stufo di una situazione così pesante e così logorante dopo dieci anni: all'inizio l'assoluzione in primo grado, dopo due anni due di un dibattimento approfondito, poi la condanna in appello e la nuova assoluzione, sia pure parziale, in Cassazione. Infine, la condanna bis in secondo grado, pochi giorni fa. Un'altalena insostenibile, con la prospettiva di perdere il vitalizio. Alla fine ha deciso di togliersi di mezzo. Si sentiva perseguitato, forse si immedesimava in uomini come Sergio Moroni, il deputato socialista che ai tempi di Mani pulite si era sparato perché non accettava di essere messo alla gogna per comportamenti che erano abituali e che prima non erano mai stati sanzionati».

Resta il fatto che alcuni consiglieri avevano utilizzato alla grande i rimborsi, giustificando spese personali di ogni genere.

«Certo c'erano stati comportamenti scandalosi, ma non era il caso di Burzi, un liberale intransigente dal carattere ruvido, per nulla accomodante, convinto, come mi aveva detto più di una volta, di non aver violato alcuna norma. Obiettivamente, risulta difficile capire come possa essere stato assolto in primo grado, dopo quarantasei udienze, e poi condannato in Appello sulla base delle stesse carte».

Ma perché non ha atteso una nuova pronuncia della Cassazione che già aveva annullato la condanna di primo grado?

«Probabilmente si era stufato di questa situazione penosa che lui reputava fuori dal mondo. D'altra parte aveva una personalità spigolosa, netta, era stato uno dei primi che avevo chiamato alla nascita di Forza Italia in Piemonte, quando il Cavaliere ci aveva mandato nel territorio con l'obiettivo di conquistare alla causa le energie migliori della Regione. Posso solo immaginare il suo sgomento, la rabbia, il senso di ingiustizia patita e penso che a questo punto abbia pensato di uscire da questo pantano con un colpo di pistola, un modo per riaffermare la propria indipendenza, la non soggezione a quel meccanismo che riteneva iniquo».

Forse pesava il diverso finale arrivato per i consiglieri di centrosinistra?

«Quel procedimento era andato a giudizio in modo contrastante e sconcertante: nemmeno una condanna su un versante dell'emiciclo, tutti colpevoli dall'altra parte. Troppe cose non quadravano e l'ingegnere dev'essersi sentito un granellino in un ingranaggio che non lo rispettava.

A quel punto una persona così, senza mezze misure, ha consegnato alla storia la propria ribellione e il proprio grido di innocente».

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