Giù le mani dalla Carrà: gli ultrà di Zan la arruolano

Chi vuole intestarle il Ddl si appropria di un simbolo di tutti. Oggi la gag con Benigni indignerebbe i perbenisti

Giù le mani dalla Carrà: gli ultrà di Zan la arruolano

Pronti via, tutto come previsto: parte la corsa alla Carrà. Se ne è andato un simbolo di tutti che però si vuole trasformare in una bandiera ideologica di qualcuno, in un vessillo da sventolare secondo convenienza. Un rituale trito e ritrito che parte puntuale ogni volta che si perde un'icona nazionalpopolare. Ennò, «Raffaella è mia», come canta Tiziano Ferro in un divertito e devoto omaggio, è mia ma di tutti, senza distinzioni perché la sua carriera è stata popolare, non settoriale. Ora le si vuole dedicare il Ddl Zan e chiamarlo quindi Ddl Carrà, in una sorta di macabro battesimo post mortem di un disegno di legge sul quale lei non si è neanche mai espressa in pubblico. Esatto, qualcuno le vuole attribuire addirittura una paternità che forse lei neppure avrebbe gradito. I social applaudono, qualche vip ne è entusiasta, molti si rendono conto che sarebbe una forzatura. Un conto è proporre di intitolarle l'Auditorium del Foro Italico, come hanno fatto Mogol e Milly Carlucci. Perfetto, sarebbe un bell'omaggio, oltretutto strameritato. Un altro è farla diventare un simbolo di parte.

Raffaella Carrà è stata la Regina di quella tv che a tanti ha fatto comodo spernacchiare perché popolare e popolana, talvolta intrisa di lacrime consolatorie, talvolta di paillettes ma sempre apolitica, apartitica, aideologica. Non è stata una barricadera, Raffa, non era un'attivista, ha fatto intrattenimento, non campagne elettorali. Qualche volta è stata trascinata controvoglia nelle schermaglie politiche, come capita a tutti i megafoni nazionalpop. A Pronto Raffaella? intervistò il segretario del Pci Natta all'ora di pranzo, è vero, ma non era certo una intervista stile Gruber a Otto e mezzo con un parterre di ospiti adoranti. Insomma adesso scatta la transumanza di comodo, quel tributo opportunista al caro estinto che si vorrebbe evitare ma puntualmente si ripropone. Ricordate Mike Bongiorno, sputacchiato per decenni dall'intellighenzia che poi depose sul suo altare giudizi drasticamente diversi, spesso contrari, talvolta ridicoli tanto erano opportunisti? Ecco.

Dopotutto Raffaella Carrà ha fatto la rivoluzione (del costume) senza essere rivoluzionaria, restando lontanissima dalle bagatelle delle segreterie di partito. E Raffaella è mia, nel senso che è mia di tutti, non di una parte soltanto. Tanto più che la sua «rottura» oggi sarebbe accolta in un altro modo. Oggi il suo ombelico nudo non sarebbe l'ombelico del mondo ma, mutantis mutandis, una grave violazione del «politicamente corretto», un asservimento della donna, una resa incondizionata al voyeurismo maschile. Invece fu una ribellione garbata, un calcio rock ai farisei dell'(allora) politicamente corretto. E lo sketch con Benigni a Fantastico del 1991? Per carità. Oggi i leoni da tastiera (sui social ma non solo) avrebbero le dita fumanti di perbenismo e indignazione. «Gattina, passerottina, crepaccia, pucchiacca, sorca, gnacchera» urlava Benigni in diretta tv al sabato sera, aggiungendo anche, per par condicio, «pistolino, randello, mazza, pesce, uccello, sventrapapere». Allora si rideva, e basta. Si rideva come si rideva nell'avanspettacolo o nel cabaret, candidamente, senza allusioni. E rideva anche chi snobbava, anzi detestava, la Carrà delle «canzoncine» al confronto delle canzoni d'autore impegnate, pesanti, schierate (sempre da una parte sola).

Sono gli stessi che oggi si siedono nella curva ultras della Carrà, facendone le veci, nominandola partigiana honoris causa. Ma Raffaella è mia, ossia di tutti, ossia grandiosamente nazionalpopolare e tanti saluti a chi le vuole mettere una casacca senza neppure averle chiesto il permesso.

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