In un clima da stadio si può svolgere solo un processo da stadio, una partita dove il tifo assordante della curva di casa influisce inevitabilmente sul risultato. L'esito del processo a Vicenza per l'inquinamento delle acque dai Pfas, i polifluorurati dell'azienda Metemi, era scontato da anni. Ancora più scontato lo era giovedì, quando nel palazzo di giustizia vicentino è confluita una folla da finale di Champions, e i vertici del tribunale, lungi dall'agire per riportare a normalità il clima, hanno pensato bene di installare un maxischermo per chi non sarebbe riuscito a entrare nell'aula dell'Assise. Proprio come si fa quando lo stadio non basta per tutti i tifosi.
La sentenza rispetta e anzi scavalca le previsioni della vigilia: centoquarantun anni di carcere a undici manager giapponesi, tedeschi e italiani della Metemi, l'azienda fallita nel 2018 che per decenni ha scaricato i suoi scarti nelle falde della zona. Certo, i suoi avvocati avranno un bel daffare a spiegare al nipponico Mak Hosoda come sia accaduto che i pubblici ministeri chiedessero la sua assoluzione, e i giudici gli rifilassero undici anni di galera. E andrà anche spiegato agli operai della Metemi che a loro, per anni e anni a diretto contatto con i Pfas, non sia stato dato un euro di risarcimento, mentre soldi a pioggia sono stati distribuiti non solo agli abitanti della zona e ai comitati delle mamme No Pfas, ma anche a sindacati, associazioni, perfino alle amministrazioni locali per anni rimaste silenti.
Ma il problema non è se la sentenza di Vicenza è giusta o sbagliata. Il Pfas esisteva, ha avvelenato le acque di una vasta zona, dove per anni i rubinetti hanno sputato sostanze tossiche. Legittima la denuncia, giusta la protesta. Ma a Vicenza si è andati più in là, e si è celebrata la manifestazione più eclatante di un male che attraversa la società e ne condiziona il sistema giudiziario: la visione della giustizia come strumento salvifico e vendicativo, con il processo elevato a rito di purificazione dove non esistono più prove e controprove ma solo il sacro diritto delle vittime a vedersi riconosciute come tali.
É un male antico, la sindrome per cui a ogni sentenza di assoluzione parte la rabbia, "ce li hanno uccisi un'altra volta", e le sentenze di condanna vengono accolte - come è accaduto giovedì a Vicenza - da pianti, abbracci, esultanza popolare, sotto l'occhio commosso dei pubblici ministeri; e prima ancora vengono preparate da fiaccolate, cortei, temi nelle scuole, "la giustizia deve trionfare e gli inquinatori eliminare", e le mamme prima della sentenza vanno a piedi di notte fino al santuario di Monte Berico dove il vescovo celebra una messa a favore della condanna degli imputati. E la condanna ovviamente arriva, "una sentenza a furor di popolo - dice l'avvocato Salvatore Scuto - che individua un capro espiatorio per salvare la coscienza dei politici".