Da Hong Kong a Taiwan tira una gran brutta aria. Nell'ex-colonia inglese le grandi compagnie di internet meditano la fuga per non dover collaborare con un apparato repressivo deciso a imporre dure sanzioni sugli utenti vicini all'opposizione. Sull'isola di Formosa, l'ultimo lembo di Cina dove non sventola la bandiera comunista, soffiano impetuosi i venti di guerra.
A risollevarli è stato il presidente cinese Xi Jinping che il primo luglio - durante celebrazioni per il centenario della fondazione del Partito Comunista - ha promesso di completare la «riunificazione» del Paese e di «schiacciare» qualsiasi tentativo di riaffermare l'indipendenza dell'isola. «Risolvere la questione di Taiwan e realizzare la completa riunificazione della madrepatria - aveva detto Xi Jinping - sono compiti storici inderogabili del Partito comunista cinese e rispondono alle aspirazioni comuni del popolo cinese». Le sue parole hanno risvegliato lo storico nemico giapponese preoccupato dall'esplicita e crescente aggressività del Dragone. E così il vice premier di Tokyo Taro Aso ha subito assicurato la disponibilità giapponese a intervenire al fianco degli Stati Uniti per sventare una possibile invasione di Formosa. «Se si verificasse un grave incidente, questo creerebbe una situazione capace di minacciare la nostra sopravvivenza. In tal caso, Usa e Giappone dovrebbero difendere Taiwan insieme», ha detto il vicepremier conosciuto per la sua propensione alla polemica.
Da quel momento il crescendo è stato inarrestabile. E la Cina, irritata dall'intromissione giapponese, ha alzato di più il tiro. «Non permetteremo mai ad alcun Paese di intervenire in alcun modo sulla questione di Taiwan - ha replicato il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian - Nessuno sottovaluti la determinazione e la capacità del popolo cinese di difendere sovranità nazionale e integrità territoriale».
Consapevole di aver scatenato un putiferio, il vicepremier giapponese ha innestato la retromarcia spiegando che la situazione di Taiwan va risolta per via diplomatica. Il suo intervento ha però reso evidente una crescente tensione. L'allarme più recente risale, del resto, al 15 giugno scorso quando i radar statunitensi hanno registrato le attività di ben 28 bombardieri e intercettori cinesi nella zona di controllo aereo di Taiwan. Il tutto mentre navi e aerei di Pechino intensificano le attività intorno alle Senkaku, l'arcipelago amministrato dal Giappone, ma rivendicato da Pechino e da Taipei. I venti di guerra che agitano l'isola di Formosa fanno il paio con la pesante atmosfera repressiva calata su Hong Kong. Con la scusa di contrastare il cosiddetto «doxing» - la pubblicazione in rete di informazioni riservate ai danni di agenti di polizia, giudici e funzionari pubblici - le autorità cinesi si preparano a varare una legge che impone ai grandi gestori come Google, Facebook e Twitter la consegna dei dati degli utenti. Ma i giganti della rete consapevoli che la collaborazione con le autorità cinesi infliggerebbe un durissimo colpo alla loro reputazione a livello mondiale minacciano di abbandonare Hong Kong.
«Introdurre sanzioni mirate a individui non è in linea con le norme e le tendenze globali - scrive alle autorità l'Asia Internet Coalition l'associazione che raggruppa i giganti come Google, Facebook e Twitter, Apple e LinkedIn. «L'unico modo per le aziende tecnologiche di evitare queste sanzioni - si legge nel documento - sarebbe astenersi dall'investire e dall'offrire i propri servizi a Hong Kong».
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