Che i droni fossero l'arma potenzialmente più letale, per spostare gli equilibri e soprattutto gli umori della guerra, era cosa nota. E anche per questo gli americani hanno sempre espresso riserve sui missili a lungo raggio ceduti all'Ucraina; potevano colpire su suolo russo, e ingenerare quella escalation che nessuno, neppure forse Putin, vorrebbe vedere realizzata. Un conflitto non più nelle trincee del Paese di Zelensky, ma allargato a un perimetro difficile da delineare. Per tutti, anche per lo Zar.
Ora che un grattacielo a Mosca è stato centrato, e per la prima volta l'attacco è rivendicato da Kiev, bisogna prenderne atto. La diplomazia internazionale fa i suoi calcoli, ipotizzandone gli effetti. C'è chi prova a considerarlo solo un incidente. E chi invece lo interpreta con un segnale di debolezza russo, prendendolo a pretesto per inasprire la controffensiva ucraina e spingersi fino al Cremlino (pur di fermare Putin).
I russi però non stanno a guardare. Lo Zar resta cauto. Perché nell'invasione che continua a registrare bombardamenti, morti e feriti in entrambi gli eserciti, a danno soprattutto dei civili ucraini, i droni a bersaglio su Mosca - non come quello di due mesi fa - rischiano di cambiare le cose, instillando un sapore drammaturgico nella popolazione russa e ridando fiato ai falchi.
Un personaggio come Medvedev, per esempio, vicepresidente del Consiglio di sicurezza presieduto da Putin, è stato sempre «letto» come colui che a soggetto esaspera e provoca l'Occidente, consapevole che le sue minacce di ricorso ad armi nucleari tattiche dalla Bielorussia rientrino più nella sfera della propaganda e dei muscoli mostrati, che non nella realtà; l'ultima parola (e la valigetta) ce l'ha lo Zar. E due giorni fa alla parata della Marina a San Pietroburgo Putin ha ripetuto d'esser pronto «a qualsiasi scenario, ma nessuno lo vuole», scacciando quindi l'idea di uno scontro con gli Usa.
Ieri però Medvedev è tornato a ventilare la possibilità che Mosca utilizzi armi nucleari: inevitabile, dice, se la controffensiva «sostenuta dalla Nato» sarà un successo. Chiarisce che non c'è più solo Kiev in ballo, ma l'Alleanza nel suo complesso, ché continua a fornire supporto militare agli ucraini anche dopo che i gialloblù hanno colpito entro i confini russi con i droni: «I nemici dovrebbero pregare per il successo dei nostri guerrieri, che stanno facendo in modo che non si inneschi un incendio nucleare globale», la postilla.
Washington monitora quel che considera un rischio «reale». Zelensky non si tira indietro. Dice che la guerra sta «tornando» a poco a poco in Russia, nei suoi simboli; parla di «processo inevitabile, naturale e assolutamente giusto». Insomma, vuol colpire in profondità. Non proprio la dottrina Nato, se si esclude la Gran Bretagna, primo Paese a infrangere il tabù delle armi a lungo raggio. Sul campo serve il pallottoliere per contare i russi col morale a pezzi. Ma i «buchi» nei cieli di Mosca possono creare scompensi pure in Occidente, non solo nei fragili equilibri interni alla Federazione o in trincea. Grazie alla gittata degli Storm Shadow anglo-francesi e alle tecnologie che ne schermano la presenza, Londra punta al successo anche con i droni a segno. Roma è più prudente: siamo già al 46% degli italiani contro l'invio armi (sondaggio Noto).
Da una parte c'è il telefono rosso sempre pronto negli Usa. Dall'altra il filo giallo che porterà il cardinal Zuppi in Cina. In mezzo, un Occidente che teme ora divisioni esplicite, sul da farsi in caso di escalation innescata stavolta da Zelensky & Co.
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