Nessuno conosce l'orizzonte di Mario Draghi, ma un punto fermo ormai c'è: le elezioni non sono la sua partita. Non ci sarà la prossima primavera una lista con il suo nome. Non ci sarà un partito di Draghi, neppure di sponda, neppure con una benedizione, un cenno di assenso, un'eredità indiretta del suo lavoro. L'idea insomma è fare come Cincinnato, lasciando agli altri il compito di immaginare una futura maggioranza politica. È chiaro che il ritorno al casa del capo del governo non aiuta i partiti a trovare una via d'uscita dal bipolarismo impossibile di cui sono prigionieri. Il gioco delle alleanze da troppo tempo gira a vuoto. Non è facile in questo momento vedere qualcosa che assomigli a un centrosinistra o a un centrodestra. Le coalizioni assomigliano a nebulose instabili, dove ognuno guarda al proprio ombelico e le linee di confine sono frammentate, pulviscolari, con un Parlamento che è diventato piccolo e purtroppo anche marginale. Non ci si è neppure preoccupati finora di definire le nuove regole della competizione e così resiste il vecchio e farraginoso «Rosatellum», una legge elettorale disegnata in un'altra stagione politica.
Il Pd di Letta immaginava una grande sinistra, lontana parente dell'Ulivo di Prodi, che reclamava nella sua orbita i nuovi grillini di Conte, con un'alleanza a tutto campo, magari radicata anche a livello territoriale. Si è capito ben presto che è solo un'illusione. La scelta di Conte sull'Ucraina è una sorta di punto di non ritorno, perché l'ex premier ha capito che per sopravvivere doveva smarcarsi dal Pd e puntare su quella parte di elettorato che non si riconosce come «atlantica». L'altra speranza di Letta era avere Draghi dalla sua parte, come una sorta di ombrello dove riunire tutta la sinistra che in qualche modo si sente «draghiana». Solo che senza Draghi questa operazione diventa ancora più complicata.
La situazione non è chiara neppure a destra. Le elezioni per il Quirinale hanno lasciato ferite profonde. Non c'è più la base di fiducia. Il caso Palermo, con Lega e Fratelli d'Italia sulle barricate, mostra che ormai sta diventando impossibile trovare un accordo sul candidato sindaco di una città. Il partito di Draghi, anche senza Draghi, poteva essere la pietra d'angolo di un «centro» che guarda a destra. Quel «centro» però fatica a formarsi e questo mette Giorgia Meloni in una posizione di forza.
Se Draghi doveva essere l'enzima in grado di modificare gli equilibri politici qualcosa non ha funzionato. Il suo peso specifico si è rivelato inferiore alle attese. Qualcuno parla di dismissione. Non è così. È chiaro però che del partito di Draghi negli ultimi tempi si è persa ogni traccia. È così che le due coalizioni sono rimaste in una terra di nessuno, incapaci di tornare indietro e di andare avanti. Quasi costrette a restare insieme come amanti che non hanno più nulla da dirsi, sfiduciati e incompatibili. La via d'uscita, piuttosto stretta, diventa la legge elettorale.
I partiti non potranno che muoversi in una logica proporzionale, magari con una soglia di sbarramento al quattro o cinque per cento. Le elezioni non indicheranno un vincitore e il nuovo governo nascerà da accordi in Parlamento. È lì che torna in gioco Draghi, proprio come Cincinnato.
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