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"Inevitabili le scelte del governo. Violenze e droga, linea dura"

Il figlio di Vincenzo, fondatore di San Patrignano: "Interessante è la novità dei lavori socialmente utili. Ma non basta sanzionare"

"Inevitabili le scelte del governo. Violenze e droga, linea dura"

Non ci gira intorno: «È inevitabile».

Che cosa?

«Che lo Stato si attrezzi per fronteggiare le baby gang che spadroneggiano ovunque, anche a Rimini, la mia città, e le organizzazioni criminali composte da giovanissimi. È inevitabile vuol dire che non è né giusto né sbagliato, è semplicemente necessario perché la comunità non può rimanere inerme davanti alla violenza e alla sopraffazione».

Andrea Muccioli, figlio di un'icona come Vincenzo, è un educatore, ha guidato per lunghi anni San Patrignano e oggi lavora per recuperare e reinserire nella società i detenuti. Potrebbe essere il curriculum di un perfetto «buonista», ma lui non ha paura a sparigliare e ad andare controcorrente. Naturalmente con tutta una serie di aggiunte e sottolineature: «Siamo davanti a una realtà preoccupante, anzi un'emergenza che va affrontata in due modi: sanzione e rieducazione».

Di solito le due parole viaggiano scollegate: ci sono i forcaioli e i perdonisti. Lei come si classifica?

«Io sono realista e dunque sono con il governo: in linea generale i provvedimenti di cui si parla in queste ore mi stanno bene, non se ne può fare a meno, purché sia chiaro che la sanzione da sola non basta, non può bastare, dev'essere accompagnata da un lavoro paziente e tenace per riportare il ragazzo sulla retta via. Se no, tu chiudi il giovane in una cella e quando esce sarà peggio di prima, carico di odio e di voglia di avere qualunque cosa senza impegno e fatica».

Inasprimento delle pene per alcuni reati. È d'accordo?

«Sì, certo. Questi giovani sano benissimo di fare del male e hanno a disposizione armi, gli strumenti modernissimi del web, tecnologie sofisticate che i loro padri nemmeno si sognavano. Quindi è giusto aumentare le pene per i reati legati al possesso di armi e allo spaccio di stupefacenti. Ed è altrettanto sacrosanto allargare il perimetro dei reati per cui sia previsto il fermo. Di fronte a baby professionisti del crimine è naturale che si prendano le contromisure».

Il divieto del cellulare?

«Ecco, questo me lo risparmierei. È evidente che se tu togli il telefonino a un quattordicenne, lui cinque minuti dopo se ne procura un altro da qualche amico. Il tema è serio e non lo si può banalizzare scivolando nel ridicolo. Anche sull'applicabilità del Daspo urbano ho i miei dubbi».

I lavori socialmente utili?

«Questo è forse l'aspetto più interessante. Questi ragazzi hanno una capacità criminale elevatissima, ma per il resto hanno dentro un vuoto totale. Non sono cresciuti, non hanno consapevolezza dell'immoralità dei loro gesti, non considerano il danno che infliggono alle persone derubate, rapinate, accoltellate, purtroppo in qualche caso ammazzate. Sono adulti dal punto di vista criminale, ma bambini per il resto. Ecco, quindi che lo stare davanti alle tante disgrazie del nostro mondo li costringe a guardare in faccia quella realtà che loro non considerano».

Quale realtà?

«I malati. I vecchi. I disabili. L'infinito catalogo delle sofferenze umane: devono vedere, devono rendersi conto, devono imparare ad aiutare, ad accudire, a dare la mano a un malato di Parkinson o a cambiare i pannoloni di chi non è più autosufficiente».

Non prevarrà la tentazione di scappare di fronte a queste incombenze umili e spesso non piacevoli?

«Ci vogliono naturalmente educatori competenti e capaci di tenere testa ad arroganza, ignoranza, maleducazione, assenza di moralità e in definitiva fragilità. È l'altra faccia della spavalderia e della durezza d'animo. È una battaglia, ma bisogna combatterla e, mi creda, essere fragili non vuol dire essere sprovveduti».

In pratica?

«Voglio dire che i baby criminali sanno fare i loro calcoli e non hanno nessuna intenzione di andare o tornare in galera. Meglio pulire i bagni che stare dietro le sbarre. E se è necessario in questi percorsi si può e in certi casi si deve coinvolgere anche la famiglia».

Spesso le famiglie non ci sono.

«A Napoli scopriamo che i protagonisti di fatti di cronaca nera sono figli di camorristi e boss. Dunque si deve investire per educare le famiglie, in modo che i padri educhino a loro volta i figli che sono venuti su senza valori. E se la famiglia non c'è, allora si deve puntare sulle comunità. Ce ne sono poche, pochissime rispetto alle esigenze e alle domande che infatti non trovano risposta. Le comunità sono fondamentali e vanno potenziate: è lì che si gioca la partita decisiva per rimettere in carreggiata chi è uscito dei binari. Davvero, c'è un bisogno fortissimo, starei per dire disperato, di luoghi che insegnino l'educazione, i valori e in qualche modo siano un po' per questi soggetti la famiglia che non hanno avuto».

Non è un'utopia?

«Ripeto: bisogna tenere insieme l'umanità e il rigore. Se non indichi una strada, quella persona rimarrà sempre prigioniera del suo passato tenebroso. Per questo dico che la sanzione può e deve andare a braccetto con la rieducazione del condannato. Lo dice la Costituzione e vale per tutti, a maggior ragione per uomini di 15-16 anni che hanno tutta la vita davanti».

Infine la scuola: il carcere per chi non manda i figli a scuola sarà la solita grida manzoniana che si perde nei tornanti della giustizia?

«No, è un segnale di responsabilità per chi non ha mai fatto il genitore.

E anche le famiglie andranno coinvolte in questo faticoso cammino, bilanciando ammonimenti e momenti di collaborazione».

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