Dopo mesi di non detto, con gli affondi tra il gruppo dirigente di Forza Italia e i cosiddetti fittiani derubricati a innocui colpi di fioretto, ieri è stato Paolo Romani a mettere nero su bianco quel che è piuttosto chiaro da tempo. Nel partito, dice il presidente dei senatori azzurri intervenendo alla convention di Milano, «non va bene nulla» perché «siamo divisi e litigiosi». Un concetto che in privato ripetono da tempo tutti i dirigenti di Forza Italia, praticamente senza eccezione alcuna. Non limitando peraltro il ragionamento a Raffaele Fitto, visto che la tensione è alta pure con la pattuglia che fa capo a Denis Verdini ed è nota l'agitazione che si vive nel gruppo parlamentare della Camera dove in molti vorrebbero un avvicendamento di Renato Brunetta. Allargando lo sguardo all'intero centrodestra, poi, la situazione è ancora più complessa e tante sono le contraddizioni che si respirano tra la Lega in versione lepenista, la destra degli ex An che ieri a Roma si è ritrovata divisa in ben dieci sigle e la galassia centrista che si muove tra Ncd e Italia Unica di Corrado Passera.
Lo scenario, insomma, è sicuramente contraddittorio. Ed è su questo che puntano il dito gli avversari politici e gli osservatori quando descrivono come inconciliabile un'alleanza che possa mettere insieme questo marasma. Una riflessione ragionevole, nella quale si deve però tener conto del panorama che si scorge nel centrosinistra. Anche lì c'è tutto e il contrario di tutto. E la manifestazione delle Unions di Maurizio Landini scese in piazza ieri a Roma ne è la dimostrazione. Da sinistra il segretario della Fiom si pone come un outsider rispetto al premier, il primo di una schiera che nei prossimi mesi è destinata a ingrossarsi. Renzi, arriva a dire Landini, è addirittura «peggio di Berlusconi». E a sfilare con lui c'è mezza minoranza del Pd, da Pippo Civati a Stefano Fassina passando per Rosy Bindi e Gianni Cuperlo. Scendono in piazza contro il premier, ma in Parlamento lo sostengono con i loro voti. Una bella contraddizione anche questa. Un discorso che per certi versi vale anche per la galassia che gira intorno a Nichi Vendola, anche lui al fianco di Landini nel corteo ma più cauto se di mezzo ci sono poltrone e incarichi. Non a caso in Puglia Vendola dovrebbe finire per sostenere la candidatura a governatore di Michele Emiliano con il quale notoriamente non si è mai preso. La priorità, d'altra parte, è il numero di consiglieri regionali da portare a casa e una corsa in solitaria potrebbe ridurlo di molto.
Roma«Pensiamo di avere più consenso di quello che ha il governo». La cifra della manifestazione contro il Jobs Act indetta ieri dalla Fiom di Maurizio Landini non è nelle oltre 50mila presenze stimate dal sindacato, ma nel guanto di sfida lanciato formalmente all'indirizzo di Matteo Renzi. «È peggio di Berlusconi: siamo stanchi di slogan, slide e balle», ha proclamato il segretario dei metalmeccanici della Cgil, individuando nel premier un avversario più pericoloso dello storico spauracchio di tutta la sinistra. Un po' come facevano i Lama e i Berlinguer d'antan con la Dc.
La sostanza, quella vera, è un po' mancata. Landini, infatti, non ha reclamato direttamente la leadership della sua «coalizione sociale» né, tanto meno, è sceso direttamente in campo. Ha solo vagheggiato qualcosa che ricorda molto da vicino il Partito comunista di una volta. «Gli industriali vogliono solo rendere il lavoro una merce, com'era nell'800», ha urlato Landini parafrasando Marx e invitando Confindustria a «rinnovare i contratti», ma senza applicare «il modello Fiat». Eppure proprio Fiat è la più grande sconfitta di Landini: lo sciopero dei turni di straordinario indetto ieri è stato utilizzato dai delegati per andare alla manifestazione romana, ma per il resto è stato un flop.
Anche le adesioni ricordavano le Botteghe Oscure di una volta evidenziando che Landini si è «conquistato» pezzi di quella sinistra desiderosa di sopravvivere a Renzi: il pensoso Stefano Fassina, l'ombroso Pippo Civati, il kafkiano Gianni Cuperlo (che ha inviato un messaggio ma non ha partecipato), l'appassionata Rosy Bindi e l'ineffabile Nichi Vendola con quel che resta di Sel. Ovviamente, il tutto è stato benedetto dal «santone» adatto a queste celebrazioni, cioè Stefano Rodotà.
Landini si è schermito ancora una volta dietro formule un po' vaghe. «Il sindacato non deve diventare un partito, perché deve essere autonomo dalla politica, ma deve avere una soggettività politica», ha ribadito. È una risposta alle critiche che gli sono giunte direttamente dal presidente di Confindustria Giorgio Squinzi («Fanno politica, Fiom e Cgil frenano tutto») e indirettamente al ministro del Lavoro Giuliano Poletti e dallo stesso premier. Allo stesso modo, il programma è un po' «riciclato». «Vogliamo contrastare il Jobs Act sia sul piano contrattuale che legale e legislativo, non escludendo alcun tipo di intervento», ha sostenuto senza però specificare se intenda seguire la pericolosa strada del referendum. Idem per l'abbassamento dell'età pensionabile e la riduzione dell'orario di lavoro (un pallino di Bertinotti).
Se questa è la «risposta» a un governo «che ha già fatto la sua coalizione sociale con Confindustria e Bce», non si può non osservare
come l'unico risultato concreto sia stato l'aver tenuto dentro il segretario generale Cgil, Susanna Camusso, con cui Landini ha sempre avuto un rapporto a dir poco dialettico. Nessun nemico a sinistra, come nel vecchio Pci.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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