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"Lei è il premier, io sono il direttore". Beatrice Venezi come Giorgia Meloni

In esclusiva a ilGiornale.it, Beatrice Venezi rivendica il diritto di essere chiamata direttore d'orchestra: "Riconosciamo la funzione per riconoscerne il merito"

"Lei è il premier, io sono il direttore". Beatrice Venezi come Giorgia Meloni Esclusiva

Beatrice Venezi è il direttore d’orchestra, Giorgia Meloni è il presidente del Consiglio. Sono due donne che hanno scelto di anteporre il ruolo, che non ha genere, alla loro persona in ambito lavorativo. Una scelta che, sia per l’una che per l’altra, è stata foriera di polemiche e critiche da parte delle femministe, davanti alle quali hanno deciso di fare spallucce, portando avanti una vera rivoluzione, di fatti e non di parole. Beatrice Venezi è la madre di questa battaglia nel nostro Paese da quando, durante la sua partecipazione a Sanremo, ha rivendicato il diritto a farsi chiamare direttore, attirando addosso critiche e anche insulti. A ilGiornale.it ha spiegato il suo punto di vista su questa polemica.

Cosa ne pensa delle polemiche sulla scelta di Giorgia Meloni di farsi chiamare “il” presidente?
Sterili, come tutte le polemiche di questo tipo. Come del resto è stato debole l’attacco che ha ricevuto sul pericolo delle donne che rimangono un passo indietro rispetto agli uomini.

È stata una delle prime a rivendicare il diritto a mantenere la declinazione al maschile per il tuo ruolo, cosa significa questo per lei?
È fondamentale e sono contenta di vedere il trend anche nel mondo. Per mia formazione e per lavoro mi confronto con l’estero e vedo che non è solo una mia idea. È il tema che viene affrontato in Francia in questi mesi, dove autrici e scrittrici che hanno sollevato una polemica sul fatto che vogliono essere chiamate “autori” e non “autrici”. Nell’ottica di una pari retribuzione, di una pari dignità del lavoro e opportunità. Ed è questo quello che dico io quando rivendico di essere direttore d’orchestra: riconosciamo la funzione e diciamo che ha la stessa validità, lo stesso peso, la stessa retribuzione e la stessa opportunità, sia che si tratti di una donna che di un uomo. Così ne riconosciamo il merito.

Un riconoscimento del merito, quindi, e non una sterile “battaglia della quota rosa”?
A me ha fatto molto piacere che la parola “merito” sia venuta fuori fin dai primissimi giorni di governo, perché è ciò che nel nostro Paese manca, ossia la pura ed esclusiva valutazione del merito al di fuori di qualsiasi altra logica, politica o partitica, di appartenenza a un genere o a un gruppo, che alla fine diventa lobby. La parola merito fa molto bene alla nostra pubblica e privata amministrazione.

Quindi rivendica il diritto di essere chiamata “il direttore” anche in lotta al “patriarcato”?
Assolutamente sì.

Le femministe, invece, accusano la Meloni di fare l’opposto: di farsi chiamare “il presidente” per appoggiarlo. Cosa ne pensa?
Io rivendico esattamente il contrario. Cosa c’è di più grande nella lotta al patriarcato di una donna presidente del Consiglio? Già di per sé sarebbe sufficiente questo. Le è stata mossa l’accusa di assenza di quote rosa nel governo: alla fine ha fatto una scelta di merito.

A Giorgia Meloni viene riconosciuta la leadership femminile ma la si accusa di non essere femminista.
Forse non è una femminista sessantottina, ma grazie a Dio, visti i risultati di quel femminismo oggi, non all’epoca, quando aveva motivo di esistere. Oggi è superata come visione. Oggi dobbiamo parlare di pari retribuzione ma non viene fatto.

Lei e Giorgia Meloni siete arrivate al vertice delle vostre carriere per merito, non per le quote rosa. Lo considera un valore aggiunto?
Questo dimostra a maggior ragione che le quote rosa non servono a nulla. È il modo estremamente maschilista di tenere a bada le donne. Significano: “Non sforzarti di essere la migliore all’interno di un gruppo, tanto ti do il tuo posticino”. La presenza della Meloni a Palazzo Chigi manda in corto circuito la sinistra. Perché questa rivoluzione, quasi copernicana, non solo viene da una donna, non solo viene da una donna che è arrivata lì senza le quote rosa ma viene da una donna cresciuta all’interno di un partito conservatore di destra.

Come si sente a essere stata la prima in Italia a chiedere di anteporre il ruolo alla persona?
Mi fa piacere che ancora oggi ci sia un dibattito.

Credo che, anche con l’esempio lampante di Giorgia Meloni, tutto assuma un significato ancora più profondo e innovativo.

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