Mentre i giornaloni danno la caccia ai fantasmi sui soldi che la Russia avrebbe dato ad alcuni partiti europei, c'è un Paese come la Cina - che di Vladimir Putin è il principale alleato - che ingaggia politici italiani (e non solo) attraverso holding del lusso e società multinazionali e li mette a busta paga in chiaro. E loro ricambiano, magnificando le lodi della Via della Seta. Il Made in Italy annega sotto la concorrenza sleale del Dragone cinese, che sfrutta i paradisi fiscali in Delaware, New Jersey e Londra per pagare meno tasse possibili sui mostruosi guadagni dei loro business. Eppure nessuno si indigna di fronte al leader del principale partito di sinistra di questo Paese (erede di quel Pci che grazie al fiume incontrollato di rubli comunisti ha propagandato in Italia le più grandi fake news sul regime sovietico) che dei suoi rapporti con le aziende cinesi vicine a Xi Jinping come la Tojoy - che l'aveva nominato vicepresidente per l'Occidente - si fa vanto persino sul curriculum.
L'unica voce di protesta è quella di Fratelli d'Italia: «Il coinvolgimento del segretario del Pd Enrico Letta in società legate alla Cina è un fatto grave, preoccupante e anche pericoloso per l'Italia. Letta la smetta di prendere in giro gli italiani, chiarisca subito la natura dei suoi rapporti con Pechino e spieghi onestamente la sua collocazione a livello internazionale, che a parole si dice occidentale e atlantista ma nei fatti rischia di essere fortemente legata e condizionata dai suoi affari», dice il partito di Giorgia Meloni, nelle stesse ore in cui è stato incautamente chiamato in causa da Repubblica come beneficiaria dei soldi del Cremlino, senza che di queste dazioni di denaro in nero ci sia alcuna prova. Sul Letta «cinese» i giornaloni tacciono come lo stesso leader Pd, nessuno lo disturba. Mai il livello del giornalismo rosso in campagna elettorale era crollato così ma tant'è. «Le rivelazioni del Giornale dimostrano l'ipocrisia del Pd e del suo segretario che in Italia propone una fiscalità progressiva e oppressiva, ma che per se stesso e alle sue società riserva paradisi fiscali come il Delaware, dove si può nascondere il denaro meglio che a Panama, così come scritto da The Guardian», sottolinea il deputato Fdi Galeazzo Bignami, che chiede «chiarimenti sulla trasparenza della sua collocazione internazionale e sulla genuinità del suo posizionamento a fianco delle forze occidentali».
Il problema delle porte girevoli tra politica e affari è centrale. È la famigerata élite capture, il «reclutamento di ex politici di rango nei consigli di amministrazione di aziende strategiche nazionali» di cui parla il Copasir nella relazione del 19 agosto scorso. Da Gerhard Schroeder - il cancelliere tedesco finito a Gazprom e legato alla costruzione dei gasdotti russo-tedeschi North Stream 1 e 2 - all'ex commissario ceco Stefan Fule, ingaggiato dalla Cefc China Energy, fino dell'ex primo ministro del Belgio Yves Leterme, nominato copresidente del Fondo di investimenti cinese ToJoy, stessa società che aveva ingaggiato Letta. Tanto che il Parlamento europeo il 9 marzo di quest'anno ha approvato la risoluzione «sulle ingerenze straniere in tutti i processi democratici nell'Unione europea, inclusa la disinformazione».
«Diversi politici - è l'allarme di Bruxelles - compresi ex politici e dipendenti pubblici europei, sono assunti o cooptati da imprese controllate da Stati autoritari o società private straniere (riconducibili direttamente o indirettamente alla influenza di Russia e Cina) in cambio delle loro conoscenze e a discapito degli interessi dei cittadini dell'Ue e degli Stati membri». È l'identikit di Enrico Letta. Ma non ditelo ai giornaloni, a caccia delle ombre rosse.
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