
La cultura di destra è davvero più fragile di quella di sinistra?
L'area progressista ha una narrazione orwelliana, del bis-pensiero: può dire una cosa e il suo contrario senza vergogna perché nessuno osa davvero censurarla. È una cultura che si regge su un'unica verità: quella del potere. Per questo al potere piace, qualunque esso sia.
Il suo fondamento è semplice e implacabile: elezioni ogni cinque anni e continue prove di consenso pubblico. Il margine per ripensare il futuro è inesistente: chi pensa ai contenuti appare un illuso pericoloso.
Qui i conservatori dovrebbero lanciare la sfida. Bisogna costruire un nuovo pragmatismo, fondato su un consenso formato. Il timore di dire la verità è il timore di ammettere che il treno della nostra civiltà corre verso l'abisso. Ma tacere è lasciarlo deragliare.
Perché chi conosce i suoi problemi ha più possibilità di trovare soluzioni di chi è cullato nell'inganno.
La Prima Repubblica, ci ha lasciato in eredità solo una tecnica di potere. Le élite hanno saputo riciclarla, adattandola ai tempi, ma la destra e l'area moderata sono prigioniere di un complesso: quello dell'"unico intellettuale di area". Troppi pensatori vivono l'illusione di essere voci isolate nel deserto, senza comunità, senza maestri, senza eredi. Una solitudine che va spezzata.
La cultura serve a ricostruire una comunità ragionante e pragmatica, capace di riportare agli elettori il fuoco prometeico della verità e del discernimento del proprio interesse.
Le idee non si misurano dalla purezza astratta ma dai frutti. Una civiltà matura apprezza i maestri non per l'aura che li circonda, ma per i loro allievi. Così la cultura resta viva e non diventa reliquia.
Il problema non è soltanto politico, ma esistenziale: accontentarsi del ruolo di spettatori in un teatro dove il copione è già stato
scritto dalla pseudocultura del 68, oppure osare e riscrivere quel copione, restituendo al cittadino la possibilità di pensare capire e scegliere.La destra, se vuole vivere, non deve più difendere: deve rischiare e creare.