
C'è da spiegare a uno straniero (anche un giudice o imprenditore statunitense) la logica dell'inchiesta milanese sull'urbanistica: che è basata, com'è noto, non su tangenti o soldi in nero, ma su incarichi, nomine e progetti (legali) tra organi nominati da gente eletta per farlo - tipo consiglieri o il sindaco - e i migliori professionisti sul mercato dell'urbanistica, o alcuni tra i più rinomati: gli stessi che hanno trasformato Milano in un luogo attrattivo per investimenti da tutto il mondo. Sino a ieri.
L'inchiesta milanese ruota attorno a Giuseppe Marinoni (architetto, presidente della Commissione per il Paesaggio) che è accusato di aver ricevuto incarichi da sviluppatori privati tra cui Coima, Kryalos e altri, e di non averlo dichiarato nel momento in cui valutava progetti presentati da queste società. Il reato sarebbe duplice: falso ideologico commesso da pubblico ufficiale (art. 479 c.p.) per aver appunto attestato falsamente l'assenza di conflitti d'interesse, e abuso d'ufficio (art. 323) ipotizzando un vantaggio indiretto per sé e per terzi. La procura ci vede anche una corruzione per l'esercizio della funzione (art. 318) a carico degli sviluppatori dei progetti urbanistici, ossia una relazione tra incarichi professionali e un favoreggiamento nella valutazione dei progetti stessi.
Negli Stati Uniti, per cominciare, queste condotte non costituirebbero reato salvo l'esistenza di una prova esplicita di scambi illeciti ("quid pro quo") anche perché il diritto statunitense distingue nettamente tra criminal corruption e conflict of interest. La regolazione dei conflitti di interesse avviene tramite statuti statali o municipali o tramite astensione dalle decisioni (recusal) che è obbligatoria in caso di interesse personale diretto, o, infine, tramite un controllo amministrativo (non penale) tale che, in caso di omissioni, si applicano delle sanzioni disciplinari o al massimo civili. La giurisprudenza federale, inoltre, è decisamente restrittiva nel configurare il reato di corruzione: come ri-stabilito in un'importante sentenza (McDonnell v. United States del 2016) è necessaria una prova concreta di uno scambio illecito intervenuto a margine di atto ufficiale.
Sulle italianissime richieste d'arresto non c'è da farla lunga, perché si sa: da noi ci si giostra sull'articolo 274 e su presunte ipotesi di inquinamenti delle prove o possibilità di fughe o reiterazione dei reati (sarebbe la pericolosità sociale, che nel caso consisterebbe nel continuare a fare politica o imprenditoria) mentre negli Usa la libertà personale è protetta da vari "act" e dal Quinto emendamento: l'arresto preventivo è cosa rara, e si ha solo se l'imputato rappresenta un pericolo per la comunità o è a rischio di fuga. Salvo casi eccezionali, gli indagati/imputati vengono citati a giudizio e giudicati a piede libero.
Torniamo a Milano. Uno degli effetti più gravi dell'inchiesta è il blocco effettivo delle attività della Commissione Paesaggio e la sospensione di procedimenti autorizzativi per progetti strategici, tipo il Pirellino o gli alloggi per studenti: anche perché il danno all'immagine e alla funzionalità amministrativa, complice la volubilità della stampa, è notevole e spesso catastrofista.
Negli Stati Uniti la regola è opposta: prioritario infatti è non compromettere il funzionamento dell'amministrazione. In caso di indagini si procede con la sostituzione temporanea dei funzionari senza congelare le linee di sviluppo urbanistico. Questo è stato evidente nei grandi progetti di riqualificazione (due esempi: Hudson Yards a New York e Downtown a Los Angeles) dove le autorità locali hanno collaborato con "sviluppatori" privati e studi professionali anche in presenza di indagini. La logica Usa è detta functional continuity, un consolidato nella governance urbana.
Ultimo ma non ultimo è lo strapotere della magistratura nostrana, inteso dagli operatori stranieri (anche stranieri) come un'anomalia assoluta. Sulla carta (anche costituzionale) le nostre toghe non hanno nessuna responsabilità politica: si autogovernano e la responsabilità disciplinare è interna, sappiamo esercitata come. Negli Stati Uniti ci sono i District Attorneys e i Federal Prosecutors che sono soggetti a nomina politica o elettiva: devono rendere conto alla comunità e rispondere di come utilizzano le risorse pubbliche, il che produce un effetto selettivo: le inchieste in pratica devono essere forti, circostanziate e comunicabili, pena la perdita di consenso e di credibilità. La magistratura italiana non ha questo problema.
Restando sul pezzo: il principio chiamato selective prosecution limita la discrezionalità investigativa arbitraria negli Usa, mentre l'intervento in settori altamente sensibili (come appunto la pianificazione urbana) richiede soglie di prova molto più alte del consueto. E delle nostre.
Ne consegue, anche senza sposare i sistemi giuridici anglosassoni che pure molto avrebbero da insegnarci, che in Italia sopravvive uno squilibrio sistemico tra giustizia e sviluppo. L'inchiesta milanese sarà anche motivata da esigenze di trasparenza, ma appare chiaramente sproporzionata rispetto ai fatti contestati e ai danni indiretti prodotti.
L'utilizzo estensivo dell'abuso d'ufficio e un'interpretazione molto personale del conflitto di interessi si sono tradotte ancora una volta in un'invasività della magistratura (della giurisdizione penale, per parlar fino) nella sfera politico-amministrativa: alla procura di Milano, da sempre, piace tracciare il solco. Poi se questo si traduce in un freno allo sviluppo, che dire: fanno il loro lavoro, rispondono. Intanto fuggono investitori e competenze, e la "governance" viene criminalizzata anziché regolamentata.