Attentato a Londra

Ma l'Isis non si batte con fiori e chitarre

Spettacolo di melassa e ipocrisia inutile Come i concerti per l'Africa degli anni '80

Ma l'Isis non si batte con fiori e chitarre

Non sarà cantando una canzone degli Oasis (bellissima) che sconfiggeremo l'Isis. Purtroppo. Non sarà l'ennesimo concertone spolverato di buoni sentimenti a cambiare le cose. Per carità, nulla di personale contro Ariana Grande e tutte le star che si sono raccolte attorno a lei, due sere fa a Manchester, per dire no al terrore. Ma sono trent'anni, dai tempi dei Live Aid per aiutare il Terzo Mondo fino alle schitarrate in difesa dell'ambiente, che le multimilionarie star della canzone pontificano squadernando ipocrisia e melassa. E l'Africa è ancora lì, con tutti i suoi drammi e le sue miserie, e il buco nell'ozono - se ne faccia una ragione Bono Vox - non si rammenda grazie a una canzonetta.

Ma la passerella di Manchester è andata un passo avanti. Perché se quelli degli anni Ottanta potevano essere derubricati come scemi di guerra in tempo di pace, questi sono scemi di guerra in tempo di guerra. Ma non lo sanno. E continuano a sciorinare il solito armamentario da hippie in naftalina. La solita idea che bisogna mettere i fiori nei cannoni al posto dei proiettili, anche se i fiori continuano a finire - settimana dopo settimana e, oramai, giorno dopo giorno - sulle tombe dei martiri di questa guerra oscena e bastarda.

È cambiata la musica ma i musicisti non l'hanno sentita. «Vincerà l'amore» hanno salmodiato tutti i cantanti che, uno dopo l'altro, si sono succeduti sul palco. Tolleranza, amore universale, fratellanza. Parole bellissime, certo, ma ahinoi fuori moda, non adatte a questi tempi.

L'arena inglese era il simbolo stesso di un Occidente che gioca con le parole, che non ha più la forza di sfogliare il dizionario e andare a leggere il loro reale significato. Che le usa come se fossero un balsamo per anestetizzare le proprie paure. Preferiamo tutti parlare di amore e tolleranza, piuttosto che di odio e guerra, infilando la testa nella trincea del politicamente corretto. Ma ogni tanto bisogna cambiare il disco.

Bastava fare una panoramica, guardare una delle belle inquadrature aeree del prato dell'Old Trafford Cricket Ground, per vedere che quella festa era un funerale (blindato) della retorica del peace & love, un festival danzante sull'orlo del precipizio. Centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa radunati in un «anello di acciaio» con i mitra spianati in mano, metal detector agli ingressi, droni ed elicotteri nel cielo plumbeo d'Inghilterra. L'illusione pacifista sopravvive solo circondata da un cordone di militari che nei mitra hanno pallottole e non boccioli di rosa. Perché siamo in guerra. E bisogna dirlo.

E se necessario pure cantarlo.

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