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Mangiaspaghetti addio

L'aumento record dei prezzi fa crollare il consumo di pasta del 10,7%. Ma pesano anche il boom della celiachia e le nuove abitudini alimentari

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«Maccherone, mi hai provocato e nun te magno più!». Il Nando Mericoni del 2023, settant'anni dopo la storica interpretazione di Alberto Sordi, è giunto a disdegnare davvero la pasta. E non per quell'americanofilia che lo induceva ad addentare pane e mostarda per poi sputarli schifato. No. I dati resi noti da uno studio di Confesercenti ieri fanno impressione: nel primo trimestre del 2023 il consumo di «maccheroni» si è contratto del 10,7 per cento. Un declino record per quello che è con la pizza il prodotto simbolo del made in Italy a tavola, una sorta di entry level schizzacravatta dell'italianità, e che rischia di trascinare in basso anche altre eccellenze produttive del nostro Paese che con la pasta vanno a braccetto.

Certo, a far scuocere gli spaghetti molto contribuisce l'aumento repentino dei prezzi seguito all'impennarsi delle materie prime e dell'energia dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, che nel mese di marzo ha fatto registrare un +17,5 per cento rispetto all'anno precedente. Un'anomalia che ha spinto il ministro delle Imprese Adolfo Urso a chiedere al Garante per la sorveglianza dei prezzi, Benedetto Mineo, di convocare per la prima volta la Commissione di allerta rapida sui prezzi per analizzare la dinamica del mercato e studiare le contromosse; e che ha indotto la Cia, la Confindustria dell'agroalimentare, a lanciare una petizione nazionale per chiedere al governo di attivare misure di tutela dei produttori cerealicoli e dei consumatori che ieri aveva raggiunto le 40mila firme.

Eppure il prezzo non può spiegare completamente la depastificazione dell'Italia. In fondo se le percentuali di aumento del codice a barre fanno impressione da un punto di vista puramente numerico, un pacco di rigatoni o di farfalle resta sempre una delle opzioni più economiche per far accomodare a tavola la famiglia secondo la filosofia di Benedetta Rossi. Ad Ancona, la città dove il prezzo della pasta è più alto, un chilo costa 2,44 euro, e se ci aggiungi del pomodoro e del baisilico dove la trovi un'altra idea per far mangiare due volte alla Benedetta Rossi una famiglia di quattro persone? Si intravede piuttosto un'accelerazione del cambio di abitudini che in Italia è in corso da anni e che è stato mascherato soltanto dal boom dell'export e dalla costante crescita dei prezzi. Se restiamo nettamente il Paese nel quale si mangia il maggior quantitativo pro capite di spaghetti (23 kg l'anno, che vuol dire 63 grammi al giorno, vale a dire una porzione scarsa), molti altri Paesi hanno ormai consumi non distanti dal nostro (in testa Tunisia, Venezuela e Grecia) e la pasta fa ormai quasi stabilmente parte del menu quotidiano di francesi, statunitensi e britannici. Cotta e condita come, preferiamo non saperlo; ma questo è un altro discorso.

Insomma, meno pasta siamo italiani. Agisce inesorabilmente la concorrenza con altri stili alimentari che si sono diffusi negli ultimi anni, dal sushi al poke. Agiscono l'aumento delle intolleranze alimentari come la celiachia, la convinzione che la pasta faccia ingrassare - cosa vera fino a un certo punto, dato che i nutrizionisti mettono la pasta nel purgatorio dell'alimentazione e non certamente all'inferno - e che sia poco digeribile soprattutto a cena - anche qui erroneamente.

Bei tempi quelli di Mericoni Nando, «americano a Roma» sì, ma guai a chi gli toccava il maccherone.

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