Cronache

La metà della birra se la bevono le tasse

Aumentano le accise, produttori in piazza contro il governo. Così si affossa un settore che vale 3,2 miliardi e 136mila posti

La metà della birra se la bevono le tasse

Le rivoluzioni partono dalle piccole cose. L'indipendenza americana iniziò con quello che i contemporanei classificherebbero come un happening situazionista anni Settanta oppure un più attuale flash mob . Un manipolo di coloni stufi del dominio britannico si presentò nel porto di Boston. Erano vestiti da indiani, nel senso di nativi, e si misero a gettare casse di prezioso tè della Compagnia delle indie nell'Oceano. Quella italiana forse non sarà segnata da una bottiglia di birra anti tasse o da una raccolta di firme dei disc jokey .

Però il fatto che si muovano settori così refrattari a ideologie e quindi non sospettabili di finalità politiche, non può che fare riflettere su un sistema fiscale che si propone di orientare il comportamenti dei contribuenti attraverso stangate fiscali. Che arriva a sanzionare i gusti in fatto di bevande e anche di musica e finisce per penalizzare chi produce, crea lavoro e ricchezza per tutti.

Ieri la protesta di AssoBirra in piazza Montecitorio. I produttori si sono distinti offrendo ai passanti una bottiglia da collezione. Una chiara con un'etichetta anti tasse. «Fisc-Ale, la birra che paghi due volte». L'obiettivo è fare sapere agli italiani che quando si bevono una chiara o una weiss , magari per accompagnare una pizza, lasciano al fisco la metà del prezzo pagato. Molto più di quanto pensino. Soltanto il 27% (3 su 10) sa che vengono applicate delle accise alle bevande alcoliche mentre quasi nessuno sa di pagarle quando beve una birra (5%).

Insomma, 9 italiani su 10 - sottolinea AssoBirra - quando bevono una birra, non sanno di pagare un balzello che in 15 mesi sono aumentati del +30% e rischia di crescere ulteriormente, grazie alle varie clausole di salvaguardia che pendono. Una toppa che i governi applicano sempre più spesso a leggi con coperture traballanti. Gli italiani pensano che la pressione fiscale sulla birra sia sotto il 50%, mentre «oggi un sorso su due della nostra birra», spiegano i produttori, «se lo beve il fisco!».

A sostegno della campagna AssoBirra ha lanciato il tag #rivogliolamiabirra «con l'obiettivo di ridare slancio alla nostra battaglia per far ridurre questa tassa tanto odiata». Le adesioni sono raccolte online in un sito: www.salvalatuabirra.it .

Situazione molto simile anche sull'intrattenimento musicale. Qualche giorno fa, la notizia che uno dei più importanti festival mondiali di musica elettronica da ballo, il Sensation Italy , è stato cancellato per un eccesso di tasse. Ora le associazioni dei disc jokey hanno promosso una petizione per cambiare il regime fiscale che - sempre a fin di bene - fa pagare alla musica registrata, quindi anche a quella elettronica, quasi il 50%, quindi il doppio rispetto a quanto paga quella live.

L'obiettivo è favorire la musica «vera» a forza di tasse. Ma il legislatore non ha fatto i conti con il fatto che, a partire dagli anni Novanta, è difficile distinguere il confine tra i due modi di suonare. L'elettronica ha fuso i due mondi, ma non per il fisco, probabilmente tarato su mangiadischi e orchestrine.

Spiegano le associazioni A-Dj, Aid, Anpad, AssoDj, Silb-Fipe che hanno promosso la raccolta di firme: «Organizzare un evento musicale con un Dj è più oneroso, da un punto di vista amministrativo e tributario, di quanto lo sia uno con un artista che suona dal vivo». L'effetto è che i disc jokey italiani vengono pagati meno dei colleghi che hanno la fortuna di lavorare altrove. Per sfuggire, emigrano, insieme agli imprenditori dell'intrattenimento.

A scapito, di chi vuole ballare e anche del fisco.

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