La metamorfosi in conservatori

Conservatori. All'indomani di Atreju, la kermesse-vetrina di Fdi, sembra essere questa la nuova parola d'ordine di Giorgia Meloni e del suo partito

La metamorfosi in conservatori

Conservatori. All'indomani di Atreju, la kermesse-vetrina di Fdi, sembra essere questa la nuova parola d'ordine di Giorgia Meloni e del suo partito. Suona meno insidiosa del termine sovranisti, suona meno usurata del termine populisti, permette di individuare un terreno politico e politologico che ha radici robuste quanto profondamente inserite nelle democrazie del Vecchio continente e non solo. Prima di provare a capirne di più, bisognerà comunque dire che raramente come in Italia si è avuto intorno a concetti come sovranità e popolo un tale guazzabuglio di frasi fatte, mezze verità e intere menzogne, lì dove il primo riguarda la ragion d'essere d'ogni nazione che voglia considerarsi libera e indipendente e il secondo ha a che vedere con la comunità che quella nazione incarna e di quella nazione si fa garante. Una democrazia senza popolo è un non senso, una democrazia senza sovranità, idem. Che in Italia si faccia finta del contrario dimostra la pochezza della élite politica che la dovrebbe guidare, pura e semplice cachistocrazia, va da sé.

Nel rivendicare il termine conservatori, la Meloni cerca di fare un po' d'ordine nel variopinto quanto variegato campo della destra politica italiana, una destra che del resto si è sempre coniugata al plurale e non al singolare. C'è la destra reazionaria e quella liberale, la liberista e la confessionale, la libertaria e quella anarchico-conservatrice, la federalista Senza andare troppo in là, questa destra dalle molteplici facce ha di nuovo avuto un ruolo in partita all'indomani della discesa in campo di Berlusconi nel 1994: non sempre ha saputo giocare all'altezza delle sue ambizioni, non sempre è andata al di là della retorica delle parole, un modo come un altro per riempire di suoni quello che era un vuoto di idee.

La Meloni sa meglio di noi che essere conservatori, essere un partito conservatore, vuol dire delle cose ben precise nel campo delle idee, come in quello dell'economia, della società, dell'educazione. Comporta il rifiuto di tutto un progressismo generico quanto efficace che demanda sempre al futuro il compito di dare ragione delle scelte presenti e che dalla globalizzazione alla equiparazione uomo-merce, all'abolizione di ogni concetto di frontiera, quella sessuale compresa, disegna un orizzonte indistinto in cui è l'economia a presiedere i destini e non c'è più spazio né tempo per il comune cittadino, trasformato da soggetto politico in consumatore seriale di beni fittizi.

Definendosi conservatore, la Meloni sa altrettanto bene di sfidare un tabù: in Italia la parola gode di cattiva fama, anche se settant'anni e passa di democrazia progressista e progressiva, dalle riforme scolastiche a quelle sul lavoro, avrebbero dovuto farci capire che come «rivoluzionari» abbiamo combinato soprattutto disastri. Viene anche da dire che forse il difetto della parola conservatore, abbinata naturalmente al nostro Paese, consiste nel dover prendere atto che c'è poco o niente da conservare: basta osservare quanto sia vetusto il sistema politico parlamentare, quanto sia braminico quello attinente alla magistratura, quanto e come la burocrazia sia di fatto uno Stato a sé

La Meloni potrà obiettare, e in parte lo ha già fatto con il suo definire i conservatori «i veri rivoluzionari», sottolineando come sia una «rivoluzione conservatrice» quella che ha in mente, fenomeno quest'ultimo che dal 1789 in avanti, ovvero dalla Rivoluzione francese in poi, è ricorrente nei pensieri degli intellettuali come nelle azioni dei politici e ha a che fare con il problema della modernità. Ma qui il discorso rischierebbe di farsi troppo astratto e lo lasciamo da parte.

Una cosa sembra comunque chiara in questa scelta semantica. L'abbandono di un antieuropeismo tanto minoritario quanto inconcludente, il cercare di scegliersi compagni di strada meno impresentabili, il prendersi cura di quello che è il vero disagio italiano, la paura di perdere ciò che si era duramente guadagnato, e con esso uno stile di vita, un panorama geografico ed un panorama d'affetti, una ragion d'essere e un modo di vivere, la propria identità in breve. Oggi come oggi, gli italiani vogliono essere rassicurati, cercano indicazioni politiche che non siano all'insegna né dell'avventura né nella generica fede in un domani migliore, né nella pura e semplice invettiva, anticamera del non voto o della protesta, più o meno violenta, di piazza.

Vogliono conservare quello che hanno o, quando hanno poco o niente, ragionevolmente poter credere che sarà la politica a pensare per loro, a dare loro un aiuto. Essere conservatori vuol dire questo. Per il progresso, abbiamo già dato.

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