"La mia Ungheria non è il Paese dei muri"

L'arcivescovo di Budapest: l'accoglienza qui sempre fraterna, è una città di frontiera

"La mia Ungheria non è  il Paese dei muri"

Budapest Cardinale Peter Erdo, arcivescovo di Budapest, alla fine Papa Francesco ha mantenuto la promessa ed è tornato in Ungheria...

«Ci sentiamo molto onorati per questa visita, perché la scorsa volta, nel 2021, è venuto per partecipare a un grande evento internazionale, la messa di conclusione del Congresso Eucaristico Internazionale ed è rimasto qui soltanto mezza giornata. Poi è andato in Slovacchia per tre giorni e forse il Papa sentiva che tanti ungheresi guardavano quella visita con un pizzico di invidia! Quindi è tornato per una visita apostolica pastorale, per incontrare la comunità cattolica e il popolo ungherese».

Il popolo come sta vivendo questa visita?

«Mi sembra che tutti siano contenti, anche i non cattolici hanno chiesto di poter essere presenti alla Messa conclusiva che si terrà domani mattina».

Il Papa ieri mattina ha chiesto che l'Europa sia accogliente anche se vediamo sempre più spesso dei muri interiori di diffidenza verso chi arriva. Come si abbattono questi muri?

«Se un Paese di 10 milioni di abitanti come l'Ungheria accoglie 1 milione e mezzo di persone in un anno sicuramente non si tratta di muri. L'accoglienza qui è sempre stata amichevole, per non dire fraterna. Oltre ad abbattere i muri qui costruiamo i ponti! La nostra è una città di ponti tra Oriente e Occidente: attraverso Budapest scorre il Danubio, che è stato il confine dell'Impero Romano per secoli e confine dell'Impero di Carlo Magno, quindi siamo sempre stati abituati a questa situazione di frontiera, di periferia come dice il Santo Padre. Siamo nati per svolgere un dialogo, per conoscere gli altri, per coltivare i rapporti...».

La Chiesa ha avuto un ruolo anche per l'accoglienza in questi tempi di guerra...

«Certamente, abbiamo anche organizzato la messa in lingua ucraina in una chiesa del centro città perché sono arrivati anche sacerdoti ed è stata un'occasione per incontrarsi e pregare nella loro lingua».

Qual è lo stato di salute della fede qui in Ungheria? Tante chiese in Europa si svuotano, succede anche qui?

«Ci sono due correnti opposte: da una parte anche qui si sentono gli effetti della secolarizzazione connessa con il consumismo, con il disinteresse, con l'estrema distrazione dei giovani. Se uno gira con il telefonino in mano e non ha tempo, non ha attenzione per occuparsi di questioni come la fede, è una difficoltà in più che viviamo. D'altronde c'è anche la possibilità di riprendere o cominciare delle attività missionarie che prima non esistevano e quindi questo è positivo».

Come si può frenare questo processo di secolarizzazione?

«Non siamo profeti, si tratta di processi mondiali, bisogna analizzare soprattutto i cambiamenti antropologici che sono in corso. La Chiesa ha imparato molto durante la pandemia, perché da allora usiamo molto di più anche i mezzi di comunicazione sociale, ma sappiamo anche che attraverso questi canali non si possono trasmettere tutte le verità e i valori che appartengono alla nostra fede. Ad esempio, la presenza e l'incontro durante le celebrazioni liturgiche».

Si parla tanto di crisi dell'Occidente cristiano: la Chiesa va a una velocità diversa rispetto alla società?

«Non soltanto, perché il cristianesimo è una religione basata sulla rivelazione, su un fatto storico. Noi cristiani siamo discepoli di Gesù che era ed è una persona storica. Conoscibile attraverso gli scritti e fonti anche al di fuori della tradizione cristiana.

Non siamo una filosofia naturale che deve correre sempre dietro alle mode o all'opinione della maggioranza. Abbiamo anche un rapporto spirituale con Cristo, attraverso la preghiera e l'adorazione. E questa in Ungheria sta coinvolgendo sempre più persone!».

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