Roma - Oltre al danno, potrebbero suonare come una beffa, le carotine inviate ieri per via televisiva dal vicepremier Di Maio al ministro dell'Economia, Giovanni Tria. «Alla lettera in risposta alla Ue ci sta lavorando il ministro Tria e il premier Conte...», ha spiegato il popolare Giggino a Lucia Annunziata su Rai3. E poi: «Tria è il ministro che sta portando avanti con molto coraggio questa manovra». Quindi il salto verso l'iperbole, cui ci ha abituato: «Se passa questo modello, cambia tutta l'Europa». Santa improntitudine o colpevole inconsapevolezza che sia, alle orecchie di Tria quelle parole non sono bastate a cancellare lo sgradevole suono dell'arroganza dell'altroieri, quando assieme a Moavero (e con il silente accordo di Savona), ha provato per l'ennesima volta a rendere più ragionevoli le pretese di un governo sotto attacco su tutti i fronti (persino quello interno). Avevano proposto di abbassare il rapporto del deficit-Pil al 2,1, dal 2,4% che sta facendo impennare lo spread, per dare un segno tangibile ai mercati e alla Ue. «Un segno di buona volontà per aprire il dialogo a livello europeo», era l'idea manifestata dal drappello economistico-diplomatico che siede in Consiglio dei ministri.
Ma il «no» tranchant dei dioscuri Di Maio e Salvini ha reso inutile, anzi futile, quest'ultima idea resistenziale di Tria. Che per tutta risposta, nella conferenza stampa successiva al «chiarimento», si è dato alla macchia, come spesso ormai gli capita di dover fare. L'uomo, lo si è visto già in occasioni passate, vive una stagione di grande difficoltà che pure non gli fa perdere l'onestà di fondo. Quella quasi innocente voglia di spiegarsi, e spiegare persino ai giornalisti, quale sia la sua posizione sulle decisioni che gli passano ormai sulla testa senza che lui possa schivarle o, almeno, lenirle negli effetti. Inchiodato al suo posto anche per suprema volontà quirinalizia, visto che il Colle non può permettere né sbandamenti a una squadra di governo così traballante di suo, né di perdere una voce «responsabile» in seno al Cdm, Tria pare così sempre più una di quelle anime vaganti e tendenti al vapor acqueo, spirituali più che materiali, capaci di prendere il volo quando si addensa la dura realtà e di volatilizzarsi se è in ballo il residuale prestigio accademico. È stata perciò una domenica di passione, per il ministro dell'Economia, costretto ancora una volta a mettere la propria firma per sottoscrivere intenti affatto condivisi. La deadline di oggi alle 12, ora nella quale la risposta italiana sarà recapitata a Bruxelles, segna perciò quel tipico passaggio - hic Rhodus, hic salta - nel quale il ministro dovrà per forza di cose abbandonare la terra sotto i piedi e compiere quel balzo colossale che proprio non ha voglia di fare. Balzo verso un iperuranio di cifre aleatorie e conti che non tornano e non torneranno, refrattari come sono alle «geometrie variabili», anche se qui dovremmo parlare di «aritmetiche variabili», degli alleati di governo.
Tria non si dimette, magari si defila, ma salta lo stesso. «L'Italia confermerà l'impianto della manovra approvata», è stato detto nelle alte sfere di Palazzo Chigi. Via XX settembre pronta al decollo, verso dove nessun lo sa.
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