Politica

"Il mio Salva-Italia"

"Niente statalismo, più liberismo". E poi l'Europa, il governo (presente e futuro), il centrodestra e la riapertura controllata

"Il mio Salva-Italia"

Presidente Berlusconi, è passato da poco il ponte del Primo Maggio. Quest'anno è stato tutto diverso. Strade e piazze deserte, italiani chiusi in casa, nessuno naturalmente ha voglia di fare festa. Che effetto le ha fatto?

«Molto triste, anche se ho apprezzato ancora una volta la serietà degli italiani, gran parte dei quali non ha infranto le regole. Molto triste perché il Primo Maggio è la festa del lavoro e il lavoro per me è una cosa sacra, uno dei valori che danno un significato alla vita. Ho dedicato gran parte della mia esistenza a lavorare e a creare lavoro. Oggi finalmente, con molta cautela, qualche attività sta riprendendo, ma ancora molti italiani non possono lavorare, tanti di loro hanno già perso o rischiano di perdere il lavoro, tanti imprenditori, soprattutto i più piccoli, rischiano di chiudere un'attività alla quale hanno dedicato la vita. Per questo ho voluto, il Primo Maggio, rivolgere un messaggio di incoraggiamento ai protagonisti del mondo del lavoro, autonomo e dipendente. Dobbiamo tornare a costruire l'Italia. Ma perché questo sia possibile naturalmente non bastano gli incoraggiamenti. Bisogna mettere le aziende e i lavoratori in condizione di farlo. In condizione di sopravvivere alla crisi e di ripartire. Nessuna impresa deve essere lasciata fallire, nessun dipendente deve essere lasciato senza lavoro, nessuna persona in difficoltà dev'essere abbandonata a se stessa».

Lei crede che questo sia possibile? Quest'anno si prevede una recessione di 8-10 punti di Pil. Le grandi recessioni nella storia hanno sempre portato con sé fallimenti, disoccupazione e purtroppo anche fame.

«C'è una bella differenza: le grandi recessioni nacquero da errori o da debolezze intrinseche del sistema economico e finanziario mondiale. Questa crisi, che molti hanno paragonato ad una guerra, è diversa. Deriva da una causa esterna, la malattia, che altera radicalmente e bruscamente il funzionamento del mercato. Per questo è possibile e necessario un intervento pubblico su larga scala, massiccio nelle quantità e limitato nel tempo, perché il sistema produttivo non collassi. So di dire cose che per un liberale come me sono quasi blasfeme, ma bisogna che lo Stato e l'Europa accettino di fare molto deficit per inondare di liquidità l'economia reale e salvarla dal tracollo. Questo per due ragioni. La prima è di tipo etico: non si possono lasciare le persone alla fame, parlo di lavoratori autonomi e dipendenti, di commercianti, artigiani, partite Iva, lavoratori a contratto e persino perché purtroppo è inutile negare che esistano di coloro che vivono con il lavoro nero. La seconda ragione, non meno importante, è economica: se riusciamo a tutelare il sistema produttivo e a fare ripartire i consumi, la crisi - per quanto drammatica e lunga - non sarà eterna, e allora la ripresa potrà essere abbastanza prossima ed anche forte. Dopo la guerra venne il miracolo economico e oggi, rispetto ad allora, non abbiamo un Paese distrutto nelle infrastrutture e negli impianti».

Dunque tutto dipende dallo Stato. Andiamo verso una stagione di forte intervento pubblico, è la fine del neo-liberismo?

«Non esattamente. Non è di statalismo che abbiamo bisogno. Una parte della sinistra non vede l'ora di sfruttare questa crisi per una campagna di nazionalizzazioni e un forte aumento della tassazione. Io dico che questo è il contrario di quello che dobbiamo fare. Certo, oggi - per superare la crisi - occorre un intervento di emergenza, immediato e di breve periodo, che solo lo Stato è in grado di assicurare. Ma guai se questo fosse il pretesto per un nuovo statalismo. La ricostruzione dev'essere affidata al mercato, come avvenne nel dopoguerra. Italia e Germania negli anni '50 raggiunsero rapidamente la prosperità applicando ricette economiche liberali. Non per caso i protagonisti del miracolo economico furono cattolici-liberali: De Gasperi ed Einaudi in Italia, Adenauer ed Erhard in Germania. Dalla crisi si esce con un forte shock fiscale, tagliando le tasse e introducendo una flat tax la più contenuta possibile, in modo da consentire a tutti di tornare in attivo al più presto. Si esce anche con un radicale taglio alla burocrazia, in modo da favorire il lavoro e l'impresa, cominciando dalla sospensione del codice degli appalti e dall'abolizione del regime delle autorizzazioni preventive. Si esce infine con un grande piano-casa e un grande piano-infrastrutture, finanziato principalmente con le risorse europee della Bei, la Banca Europea per gli Investimenti».

Questo per la ripresa, ma nell'immediato, come lei ha ricordato, bisogna fare vivere gli italiani.

«Non c'è dubbio. Una crisi economica devastante potrebbe avere effetti ancora più drammatici del coronavirus, persino in termini di vite umane. Per questo sono molto preoccupato. Il governo sta facendo troppo poco e troppo tardi. Molti lavoratori non hanno ancora ricevuto la cassa integrazione, e solo in qualche caso imprenditori lungimiranti e generosi sono stati in grado di anticiparla, qualcuno aumentandola anzi fino al 100% dello stipendio. Le aziende devono affrontare un iter lungo e complesso per accedere ai finanziamenti bancari garantiti dallo Stato. Persino i 600 euro per chi ne ha diritto sono stati problematici da riscuotere e tanti italiani ne sono rimasti comunque esclusi. Così non reggeremo a lungo. Lei non ha idea di quante di queste persone, letteralmente disperate, ho avuto occasione di sentire in questo periodo. Nei giorni scorsi due importanti ristoratori che conosco mi hanno detto che non riapriranno più. Li capisco: se anche fossero autorizzati a farlo, non troverebbero clienti. La gente non ha soldi da spendere e comunque ha paura ad uscire. E qualora riaprissero si troverebbero a sostenere il doppio dei costi (distanze, sistemi protettivi, sanificazione) e avrebbero la metà dei posti, ossia dei ricavi. Stessa cosa per gli alberghi».

Certo la ristorazione è uno dei settori più colpiti dalla crisi.

«Sa cosa mi preoccupa? Che i settori più colpiti sono proprio quello sui quali si basa l'immagine dell'Italia nel mondo: turismo, cultura, cibo, arte, moda. Il turismo è praticamente azzerato e per quest'anno le prospettive sono pessime. Alberghi e ristoranti sono fermi, per impianti sciistici e stabilimenti balneari la stagione è compromessa, tutto il settore dei trasporti è paralizzato. Si tratta, con l'indotto, di una quota importante del nostro Pil, più del 15%, che viene meno. La cultura e lo spettacolo sono altrettanto gravemente penalizzati. Il mondo della moda è pressoché paralizzato. L'editoria soffre, il commercio on-line è insufficiente a coprire i costi, mentre gli introiti pubblicitari sono compromessi dalla chiusura di molte aziende e dalla carenza di liquidità di quelle in attività. La crisi di questi settori rischia di uccidere anche l'anima del nostro Paese, la ragione per la quale l'Italia è conosciuta e amata nel mondo».

Lei ha accennato al mondo della cultura e dello spettacolo: come stanno affrontando la crisi?

«Molto male, purtroppo. Musei, cinema, teatri, mostre, sale da concerti, le stesse produzioni sono chiusi e non si sa quando e come riapriranno, né quanti di loro riusciranno a sopravvivere. Questo è doppiamente grave: perché la cultura è l'anima di una collettività, è ciò che dà il senso profondo nel nostro stare insieme in nome di valori condivisi, e perché questo scenario significa, dal punto di vista concreto, un disastro per centinaia di migliaia di persone. Nel mondo della prosa, della lirica, del cinema, dell'audiovisivo, dei concerti, della danza vi sono numerosissimi artisti che lavorano duramente, e intorno a loro un apparato tecnico, amministrativo, commerciale che comprende professionalità eccellenti e che dà da vivere a decine di migliaia di famiglie. Tutto questo è completamente bloccato e non abbiamo idea di quando riaprirà. Le regole del distanziamento sociale sono molto difficili da applicare a questi settori. Non possiamo fare finta di nulla: sarebbe un costo sociale e civile insostenibile. Buona l'idea espressa da Federcultura di un Fondo per la cultura, garantito dal governo, per finanziamenti a lungo termine e con bassissimo tasso di interesse. Ma occorrono anche finanziamenti a fondo perduto, sgravi fiscali, regole certe - e non le indicazioni vaghe espresse finora - così da potere programmare la riapertura».

Lei cosa farebbe se fosse a Palazzo Chigi?

«Per il problema della liquidità, coi prestiti delle banche che non riescono ancora a partire, farei una proposta facile da realizzare e di immediata applicazione. Erogare subito alle imprese un 2025% dell'importo richiesto, massimo in 5 giorni con un'autocertificazione semplice, che non coinvolga penalmente le banche, ma solo gli Amministratori e il Collegio Sindacale delle società richiedenti. Sarebbe più utile di qualunque contributo o finanziamento alla fine di quest'anno. Questo prestito ponte, a tasso zero, dovrebbe poi rientrare con il finanziamento garantito. Si può fare in due minuti con un piccolo emendamento. Ma il problema vero è cambiare approccio. Non possiamo chiedere alle persone e alle aziende di continuare ad indebitarsi. Così forse si permette di sopravvivere, ma se nei prossimi anni gli italiani dovranno lavorare per pagare le tasse e rimborsare i prestiti, non rimarrà più nulla per vivere. Se non ci fosse questo cambiamento, non ci sarebbe e non ci potrebbe essere nessuna ripresa. Non bastano i prestiti, ci vogliono iniezioni di denaro a fondo perduto, una sorta di cassa integrazione per le aziende, per i professionisti, per i commercianti, per il lavoro autonomo. Sulla base della dichiarazione dei redditi dell'anno precedente, una quota dei mancati introiti per chi ha dovuto bloccare l'attività dev'essere versata dallo Stato. Su questo il ministro Gualtieri ha dato lunedì alla Camera l'indicazione di voler accogliere, almeno in parte, la nostra proposta. Ma bisogna passare dalle parole ai fatti, e farlo subito. E naturalmente dev'essere sospesa ogni scadenza ed ogni versamento fiscale per l'anno in corso. Altrimenti è solo una partita di giro. Su questo, anzi, abbiamo un'idea più ambiziosa».

Ce la racconti.

«Pensiamo ad un patto fiscale fra Stato e cittadini per chiudere tutti i contenziosi in atto. A chi ha un debito verso il fisco, dev'essere consentito di pagarlo subito, con una congrua riduzione e una lunga rateizzazione a interessi bassissimi. Lo Stato, dal canto suo, deve invece pagare immediatamente i tanti debiti della pubblica amministrazione verso le aziende. La flessibilità di bilancio che l'Europa ci ha accordato ci permette di farlo. È anche questo un modo per immettere denaro fresco nel sistema delle imprese».

A questo proposito, come giudica il Decreto Liquidità recentemente varato dal governo?

«Realizza in modo inadeguato un'idea che noi per primi avevamo proposto. Avevamo chiesto che lo Stato garantisse con le banche i prestiti alle imprese in difficoltà. Ma le norme approvate sono macchinose, richiedono mesi di istruttorie da parte delle banche e della Sace, che è la società incaricata dal governo di rilasciare le garanzie. In Svizzera chi ha diritto ad un aiuto deve compilare un semplice modulo di una pagina e il giorno stesso ha sul proprio conto corrente il denaro che gli viene concesso. Il decreto va profondamente modificato, mi auguro che il governo ci ascolti nell'esame parlamentare. La garanzia dello Stato va portata al 100% in modo da rendere superflua per la banca ogni verifica sulla solvibilità del richiedente. Dev'essere eliminato anche il ruolo della Sace, in modo da saltare un passaggio istruttorio e, soprattutto, i tempi di restituzione dei prestiti vanno allungati di molto, almeno a 20 anni, altrimenti saranno i ratei del debito a soffocare la ripresa di aziende già in difficoltà. Abbiamo anche chiesto l'introduzione di mini prestiti delle banche fino a 3000 euro, anch'essi garantiti dallo Stato, per i privati in difficoltà, senza lavoro o in attesa di cassa integrazione».

Presidente, parliamo di cifre colossali. Dove andiamo a trovare le risorse?

«Prima di tutto aumentando l'indebitamento. Lo dico con sofferenza, perché prima o poi i debiti si pagano e li stiamo mettendo a carico delle generazioni future. Proprio per questo abbiamo il dovere assoluto di spendere bene queste somme, di lavorare perché la ripresa sia rapida, perché già dall'anno prossimo si possa cominciare a ridurre il debito. Dalla pace fiscale potrebbero arrivare ulteriori risorse. Occorre invece evitare, lo ribadisco, ogni idea di tassa patrimoniale o di altro aumento della pressione fiscale. Nessuno può pensare di mettere le mani nei conti correnti. Piuttosto, gli italiani devono essere incoraggiati ad investire il risparmio privato, che è cospicuo, in maniera volontaria, sicura e soprattutto conveniente, nella ricostruzione della nostra economia. E poi naturalmente c'è l'Europa».

Ecco, Presidente, siamo giunti a un nodo cruciale. L'Europa per alcuni è la grande imputata, per altri la nostra ancora di salvezza. Lei cosa pensa?

«Penso che non si debbano avere atteggiamenti di sudditanza verso l'Europa, ma neppure di contestazione pregiudiziale. L'Europa siamo anche noi e sta a noi lavorare perché l'Unione Europea faccia la sua parte nell'interesse di tutti. È naturalmente, prima di tutto, un compito del governo italiano, ma ognuno deve fare la sua parte. Io, per esempio, sto lavorando molto, grazie anche al nostro ruolo nel Partito Popolare Europeo - che è la maggiore famiglia politica del continente e ai miei cordiali rapporti personali con molti dei leader europei, soprattutto nel Ppe. Mi pare che l'Europa, dopo qualche incertezza iniziale, si stia muovendo correttamente. Al Parlamento Europeo, alle cui votazioni partecipo anche io da remoto, abbiamo discusso e approvato strumenti importanti, come la Crii (Coronavirus response investiment initiative), che introduce meccanismi straordinari di flessibilità per mobilizzare tutti i fondi strutturali e di investimento europei, a livello regionale e nazionale, non utilizzati per gli esercizi finanziari 2020-2021. Il primo pacchetto per l'Italia è di 11 miliardi. Un altro traguardo per il quale ho lavorato molto è il fondo Sure, prestiti agevolati per finanziare la cassa integrazione: per l'Italia saranno 20 miliardi di euro. La Bei, dal canto su, ha messo in campo un fondo in grado di garantire prestiti alle imprese, su base europea, fino a 200 miliardi. La Banca Centrale Europea ha portato a 1100 miliardi la capacità di acquisto di titoli di Stato dei Paesi membri, e ha già annunciato di acquistare entro l'anno 220 miliardi di titoli italiani. Ha già cominciato a farl, evitando così l'impennata dello spread, nonostante il declassamento del debito italiano da parte delle agenzie di rating. Detto più semplicemente, senza la Bce faremmo molta più fatica a piazzare i titoli del debito pubblico e comunque per finanziarci dovremmo pagare un tasso molto più alto. È nel nostro interesse dialogare in modo costruttivo con i Paesi economicamente più forti, chiamati a garantire il nostro debito, che è fra i più alti al mondo».

Cosa pensa della sentenza della Corte Costituzionale tedesca di questa mattina (ieri, ndr)?

«Non posso dare una risposta sicura perché non conosciamo ancora il dispositivo della sentenza. Ma già qualcuno ha sollevato degli interrogativi per quanto riguarda i possibili effetti di questa sentenza della corte di Karlsruhe sull'intervento della Bce a sostegno dei nostri titoli di Stato. Noi da un lato abbiamo ben presente il fatto che il diritto europeo prevale su quello dei singoli Stati. Dall'altro, tuttavia, abbiamo preso atto del parere di chi afferma che la magistratura tedesca se non può decidere cosa deve fare l'Europa potrebbe però imporre al governo tedesco e alla Bundesbank di non partecipare e di non finanziare il programma di acquisti della Bce. Staremo a vedere. Continuo ad essere convinto, in ogni caso, anche alla luce di questi rischi, del fatto che dobbiamo continuare a dialogare in modo costruttivo con i Paesi dell'Unione Europea economicamente più forti, perché senza di loro e senza Europa la nostra Italia, da sola, non potrebbe farcela».

L'Europa sta ragionando anche sulla ripresa. No agli Eurobond, ma via libera al Recovery Fund, il Fondo per la Ricostruzione. Le sembra una risposta adeguata?

«Insistere sugli Eurobond, come ha provato fino all'ultimo a fare il governo italiano, è stato un errore. Era una strada impraticabile e continuare a chiederli ha portato solo a tensioni inutili. Del resto il Recovery Fund è uno strumento importantissimo che, a determinate condizioni, potrebbe essere decisivo. Deve avere una dotazione finanziaria non inferiore ai 1000 miliardi e almeno per la metà devono essere destinati a stanziamenti a fondo perduto agli Stati per finanziare la ripresa economica. Potrebbe essere il nostro piano Marshall. Il tema è che il Recovery Fund sarà definito a giugno ed entrerà in vigore con il nuovo bilancio pluriennale dell'Unione, cioè a gennaio 2021. È troppo tardi, le economie dei Paesi europei non possono aspettare. Occorre che da giugno, una volta definiti i criteri, la Bei anticipi almeno una quota delle risorse».

Non abbiamo parlato di un altro strumento, molto discusso in Italia, il Mes...

«L'ho lasciato per ultimo, perché mi offre lo spunto per una considerazione generale. Dobbiamo chiederci perché questo tema susciti tante polemiche. Quando parliamo di Mes ci riferiamo ad una linea di credito con tassi di interesse vicini allo zero per finanziare le spese sanitarie. Questo significa per l'Italia circa 37 miliardi, con i quali possiamo costruire ospedali, migliorare quelli esistenti, finanziare la ricerca, assumere nuovi medici e infermieri e formarne altri. Possiamo migliorare gli stipendi del personale sanitario, che sono scandalosamente bassi alla luce dello straordinario impegno di queste settimane. Possiamo mettere in sicurezza le case di riposo - che hanno tanto sofferto in questo periodo - e le carceri, luogo potenzialmente pericolosissimo per i contagi, realizzando settori di isolamento per le persone malate. Possiamo soccorrere chi, a causa della malattia, si trova in difficoltà economiche. Tutto questo, l'Europa ci garantisce che è senza condizioni, senza vincoli di bilancio, senza troika. È talmente difficile capire come possiamo dire di no a questo che mi viene addirittura un sospetto. In alcuni settori dei Cinque Stelle la voglia di allontanarsi dall'Europa non è mai venuta meno. Poiché l'adesione al Mes è anche lo strumento che consente alla Bce di acquistare titoli del debito italiano in misura potenzialmente illimitata, dire no al Mes sembra un modo per allontanarci dall'Europa, non mettendo i nostri partner in condizione di aiutarci. È una strada che porta verso l'uscita dall'Euro, se non dall'Unione Europea. Del resto, questa linea trova in Europa degli alleati. Sono stati i partiti sovranisti di alcuni Paesi del Nord ad avere condizionato i loro governi nazionali contro l'Italia. Quel tipo di sovranismo e il pauperismo dei Cinque Stelle si saldano in chiave antieuropea».

Però Presidente non solo i Cinque Stelle, ma anche Lega e Fratelli d'Italia si oppongono al Mes...

«È così, e il loro rifiuto mi risulta incomprensibile, proprio perché sono sicuro del fatto che i nostri alleati del centrodestra non hanno nulla a che fare con un disegno strumentale antieuropeo. Del resto però è solo un disaccordo su un punto specifico, che non mette in pericolo l'unità della nostra coalizione. Una coalizione fra diversi, con un buon programma comune per l'Italia».

Veniamo così alla politica italiana.

«Avrei quasi preferito non parlarne. Credo che oggi più che mai abbiamo il dovere di essere concentrati sui temi concreti, per rispetto ai tanti italiani che soffrono. Le manovre della politica vengono molto dopo questo. Da opposizione responsabile, ci siamo concentrati sulle proposte, non sulle polemiche, nonostante molte cose non stiano funzionando. Naturalmente verrà il momento in cui il governo dovrà renderne conto».

Lei la definisce opposizione responsabile. Come sa, c'è chi invece pensa che un avvicinamento di Forza Italia all'area di governo sia possibile.

«Con questo governo e con questa maggioranza escludo la possibilità di fare accordi politici. Noi ci stringiamo intorno alle istituzioni, quindi proviamo a dare una mano nell'emergenza a chi ha il compito di guidare il governo, chiunque sia. Questo non ha alcun significato politico».

Però il vostro atteggiamento è diverso da quello dei vostri alleati.

«Siamo alleati, non siamo lo stesso partito. Noi abbiamo una cultura, uno stile, un linguaggio diversi dai loro. Siamo liberali, cattolici, garantisti, europeisti. Siamo i soli rappresentanti in Italia delle migliori culture politiche dell'Occidente democratico. Ci comportiamo di conseguenza. Ognuno fa l'opposizione come ritiene opportuno, ma facciamo opposizione insieme e insieme rappresentiamo la maggioranza naturale degli italiani».

Vede possibile un cambio di governo, o spera ancora nelle elezioni anticipate?

«Sono problemi che non ha senso porre ora. Rimango del parere che le elezioni siano la strada maestra, ma realisticamente mi sembra che per diverso tempo non ci saranno le condizioni per portare il Paese alle urne. Dopo, ma solo dopo, se in Parlamento dovessero emergere le condizioni per un esecutivo diverso, più rappresentativo degli italiani, ne discuteremo al momento opportuno con i nostri alleati».

Molti commentatori parlano del ritorno di Berlusconi, di Forza Italia di nuovo protagonista.

«Fra tante tragedie, l'emergenza nella quale ci troviamo ha avuto almeno una conseguenza positiva. Vi è una nuova consapevolezza, diffusa, della necessità di affidare la guida del Paese a chi ha competenza, esperienza, saggezza, senso di responsabilità. Nessuno ha più il coraggio di dire che uno vale uno, che persone che non hanno mai lavorato un giorno in vita loro possano guidare uno dei maggiori Paesi d'Europa. Insomma, è crollato tutto l'armamentario ideologico dei Cinque Stelle. Noi abbiamo esperienza di governo, di relazioni internazionali, ma anche esperienza di lavoro, di impresa, di vita reale. Doverosamente le stiamo mettendo a disposizione dell'Italia, non del governo, e questo atteggiamento viene compreso e apprezzato».

Anche la politica internazionale è destinata a cambiare?

«Certamente sì. Nei primi giorni della pandemia, Henry Kissinger il più autorevole esperto vivente di politica internazionale - ha pubblicato sul Wall Street Journal una lungimirante analisi sul disordine mondiale determinato dal diffondersi della malattia. Le sue riflessioni si concludono con un appello ai Paesi democratici ad unirsi per salvaguardare i principi dell'ordine mondiale liberale che oggi sono in pericolo. È una saggia preoccupazione. Il tema del rapporto con la Cina, dell'imperialismo economico e politico cinese, che ho sollevato praticamente da solo in Italia in tempi non sospetti, diventa oggi straordinariamente attuale. Oggi la Cina ha gravi responsabilità: non solo gli Stati Uniti, ma anche Paesi come la Germania, la Francia e l'Australia chiedono di fare chiarezza sulle vicende delle ultime settimane. Le omissioni, le censure e i ritardi nel rendere noto quanto stava accadendo a Wuhan hanno consentito al virus di dilagare nel mondo, e prima di tutto purtroppo in Italia. Chiedere i danni alla Cina in tribunale, come alcuni propongono, è chiaramente solo una provocazione, ma chiederne conto politicamente a Pechino è doveroso. E le recenti rivelazioni rendono improcrastinabili risposte chiare e definitive. Dall'altra parte, però, la Cina è riuscita per prima a controllare l'epidemia e quindi a ripartire, sebbene usando metodi autoritari che considero ovviamente inaccettabili. Questo darà all'economia cinese un ulteriore vantaggio competitivo che Pechino tenterà di utilizzare in una stagione di grave recessione mondiale - per estendere la sua influenza soprattutto sui Paesi in maggiore difficoltà. Più che mai ora per rispondere a questa sfida occorre che il mondo occidentale - che condivide un sistema di valori, una visione dell'economia e delle società diverse dalla Cina - sia unito. C'è bisogno di più Europa, di più Occidente, di un rapporto diverso con la Russia, che dovrebbe essere naturalmente un'alleata e non un competitore».

Presidente, che mondo avremo dopo la pandemia? Torneremo alla nostra vita, prima o poi?

«Torneremo alla normalità, certamente, ma la vita non sarà più quella di prima, nel bene e nel male. Le grandi crisi nella storia sono state formidabili acceleratori di cambiamento. Molti storici ritengono che la grande Peste nera del '300 che uccise un terzo della popolazione del mondo allora conosciuto, sia stata uno dei fattori del passaggio dal Medioevo all'Umanesimo e al Rinascimento. Le due guerre mondiali del '900 sono state spaventose tragedie, ma hanno determinato un'evoluzione straordinaria e rapidissima della scienza, della tecnologia, dell'industria, ed anche del costume e dei rapporti sociali. Di questo cambiamento si possono cogliere i primi segni: per esempio era da molto tempo che si parlava di smart working, di lavoro a distanza nelle aziende, si era cominciato ad introdurlo in modo limitato e quasi sperimentale. Quasi di colpo, è diventato una prassi generalizzata, alla quale in tanti si sono dovuti adeguare per sopravvivere. Difficilmente si tornerà indietro. È un bene o un male? Certo, significa meno costi e quindi forse anche stipendi migliori. Significa meno traffico, meno affollamento dei mezzi pubblici e meno inquinamento. Significa più tempo libero, tutto quello risparmiato nel tragitto casa-lavoro. Però significa anche maggiore isolamento sociale, e forse una perdita di efficienza. Vedremo: di sicuro non sarà più come prima».

Un'ultima domanda: in questi giorni l'Italia prova a ripartire. Il peggio è alle spalle? Possiamo tornare serenamente al lavoro?

«È una buona notizia, ma credo ci voglia molto senso di responsabilità. Comprensibilmente, molti italiani vogliono ripartire, molte imprese chiedono di ricominciare a lavorare. Questo deve avvenire, ma in maniera ordinata, senza accelerazioni e senza confusione. La situazione non è uguale in tutto il Paese, né in tutti i settori. Dove è possibile aprire, lo si faccia assicurando il rigoroso rispetto delle norme sanitarie. Quello che dobbiamo evitare assolutamente è che una riapertura disordinata determini una seconda ondata di contagi. È un rischio che gli epidemiologi hanno ben presente e i loro allarmi non vanno trascurati. Un nuovo e più grave picco della pandemia avrebbe un costo inaccettabile in termini di vite umane ed un costo economico ben peggiore di quello pagato finora. Possiamo riaprire, gradualmente, a patto che ci siano regole chiare e certe, e purtroppo il governo non ha certo brillato in questo, e che tutti continuino a rispettarle, come è avvenuto finora. Se agiremo così, forse possiamo dire che si comincerà a vedere uno spiraglio di luce.

Il cammino sarà lungo, ma gli italiani ce la possono fare».

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