Morire di "green economy". Costi, burocrazia e tempi: con la transizione a rischio 5 milioni di posti di lavoro

La rivoluzione verde è insostenibile per 1,5 milioni di piccole imprese: 100mila euro per i certificati, spese per consulenze e sistemi di gestione. "Extra costi che non ci rendono più competitivi". E la Cina ne approfitta

Morire di "green economy". Costi, burocrazia e tempi: con la transizione a rischio 5 milioni di posti di lavoro

Morire di «green». Soffocati da certificazioni, dazi, moduli ISO e burocrazia varia. È la fine che rischiano molti imprenditori italiani, alle prese con gli obblighi della transizione ecologica imposti dall'Unione europea.

Tutti d'accordo: l'obiettivo di un ambiente pulito e un'economia sostenibile è pienamente condivisibile. Ma sostenibile non è il percorso che si è intrapreso per arrivarci. Sostenibili non sono i costi. Sostenibili non sono i tempi. Non per le tasche di aziende reduci da una crisi Covid, dall'aumento dei costi delle materie prime, da una concorrenza cinese che gioca secondo regole proibitive per l'Europa. Lo scenario per i prossimi anni è tutt'altro che rassicurante: sono 1,5 milioni - secondo i dati di Confcooperative e Censis - le aziende che rischiano la chiusura, 5,6 milioni per le persone che potrebbero perdere il posto di lavoro. Al netto di incentivi e bonus, non tutti riusciranno a sostenere gli investimenti necessari. Ma senza i certificati green, le banche non aprono linee di credito. E senza finanziamenti, che futuro può avere un'azienda? Secondo uno studio di Deloitte, solo un'azienda su 10 ha un bilancio di sostenibilità pronto, solo un quinto fa investimenti per diventare verde, solo il 7% ha al suo interno un responsabile della sostenibilità. Ma il calendario dell'agenda europea è stringente (e impietoso): salvo sorprese, entro fine anno dovranno avere un report di sostenibilità 1.800 aziende con più di 500 dipendenti, entro il 2025 le 7.800 aziende con più di 250 dipendenti, entro il 2026 le 430 piccole e medie imprese quotate in borsa, entro il 2028 le 165mila pmi non quotate.

IL LABIRINTO DI CERTIFICATI

Vittime designate della transizione green saranno soprattutto i piccoli imprenditori. È sufficiente calcolare i costi del «traghettamento» ecologico di un'azienda con 20-30 dipendenti. Solo i certificati Iso costano 100mila euro. Perchè oltre a quelli ambientali in senso stretto, ci sono quelli necessari ad avere le carte in regola per ottenere il «diploma» green: 2.500 euro per il rating di legalità, 6.500 per il sistema di gestione per l'anticorruzione, altrettanti per la gestione del rischio, 9mila per l'Iso sulla sicurezza sul lavoro. «Per l'Iso 14001 sui sistemi di gestione ambientale - racconta la titolare di un'azienda di occhiali in Lombardia, 80 dipendenti - ho speso 7.500 euro, più altri 20mila per la formazione, ma non sono gli unici costi che abbiamo dovuto sostenere». Solitamente ci sono anche i costi di consulenza (dai 6 ai 12mila euro) e di realizzazione del bilancio di sostenibilità (dagli 8 ai 10mila euro). E poi il rinnovo del parco auto e degli impianti energetici. «Sono spese variabili e facciamo fatica a quantificarle - spiega un imprenditore umbro, settore impiantistica - ma soprattutto c'è così tanta burocrazia che dovremmo implementare il personale amministrativo per seguire tutto l'iter. Se non si posticipano le scadenze, non tutti ce la faranno».

L'OBBLIGO DELLA FILIERA

Cosa succede se uno non ce la fa? Lasciamo stare le sanzioni o l'accesso al credito. Semplicemente viene fatto fuori dalla filiera. Soprattutto se è un fornitore che produce per un'azienda più grossa. Il certificato è d'obbligo. «Se il passaggio al green non verrà mitigato, prevediamo migliaia di posti di lavoro persi - spiega Enea Filippini, coordinatore nazionale dell'area Ambiente di Confapi -. Tra i costi che un'azienda deve sostenere ci sono anche quelli per la misurazione delle emissioni di C02, quelli per misurare il ciclo di vita del prodotto, quelli per aggiornare i sistemi informatici. Di fatto quelli per controllare. Quindi prima che i bilanci di un'azienda vedano gli effettivi benefici del green passerà del tempo». E poi ci sono i dazi ambientali, innanzitutto il Cbam: una tassa sui prodotti inquinanti provenienti da paesi extra Ue, che saranno più costosi.

SERVE ALL'AMBIENTE?

«Al di là dei costi, ci dobbiamo chiedere: a cosa serve questa transizione green? - si domanda un imprenditore lombardo, settore tessile - Non ci rende più produttivi, non ci rende più competitivi, ci crea degli extra costi. E ci costringerà a spostare gran parte della produzione all'estero, nei paesi in cui costa meno, aumentando spedizioni e trasporti di merci. Con il risultato che inquineremo comunque l'ambiente. Per sopravvivere. E allora che beneficio avremo?».

IL «RICATTO» CINESE

Per entrare nelle pieghe della rivoluzione «pulita», Gianclaudio Torlizzi, fondatore di T-Commodity (società specializzata nella consulenza indipendente sulle materie prime), solleva il paradosso del mercato dei metalli, quelli che servono per produrre batterie elettriche, impianti eolici, pannelli solari. Metalli ricercatissimi, ovunque, per poter passare al green. Ecco: la rivoluzione sostenibile ci lega a doppio filo alla Cina, padrona del settore. «Per raffreddare i prezzi dei metalli, passati in due anni da 4.500 dollari a tonnellata a 15mila dollari - spiega Torlizzi -, le banche hanno alzato i tassi di interesse. E così facendo hanno rallentato gli investimenti. Di fatto l'Unione europea sta costruendo una crisi pesante. Dipendiamo dalla Cina per le forniture dei materiali che ci servono per diventare green e questo è un errore strategico enorme. Sono convinto che gli obblighi eco vadano diluiti: l'Agenda 2023 va stracciata e posticipata, è folle non averlo fatto». Ma il decalogo dell'economia del futuro è stato scritto prima che le guerre in corso alterassero gli equilibri tra le potenze mondiali.

Il risultato è che le aziende non respirano, ma non possono alzare i prezzi dei loro prodotti oltre una certa soglia per non soffocare la domanda. Sono costrette ad affrontare la rivoluzione green cercando di limitare i contraccolpi.

Cercando una sponda nel governo: dal 16 febbraio, infatti, il ministero dell'Economia e delle Finanze ha reso disponibile per la consultazione pubblica lo schema del decreto che recepisce la direttiva sulla sostenibilità. Fino al 18 marzo sarà possibile presentare osservazioni. Confindustria ha già parlato di «misure invasive», a discapito della competitività, con «troppi oneri e sanzioni».

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