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Nel kibbutz davanti al muro col Libano temendo il peggio ogni giorno. "I civili sono andati via tutti"

A Hanita, comunità fondata da Sinigaglia, sono rimasti soltanto i militari: "Troppi rischi"

Nel kibbutz davanti al muro col Libano temendo il peggio ogni giorno. "I civili sono andati via tutti"
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La sirena antiaerea suona lugubre sul telefonino: «Allarme rosso: velivolo ostile» in avvicinamento dal Libano. I giannizzeri sciiti di Hezbollah hanno appena lanciato un drone verso Hanita, il kibbutz dove siamo diretti sul confine. L'ufficiale dell'intelligence che ci attende non ha dubbi: «Seguitemi. Ci mettiamo al riparo e aspettiamo che l'allarme rientri prima di andare avanti». Il militare si infila subito in una strada ripida e secondaria in mezzo alla boscaglia dell'alta Galilea. Alla fine ci fermiamo sotto gli alberi, fuori dalla vista dei droni, dove sorge una torre di guardia in legno costruita nel 1938. L'insediamento di Hanita venne fondato dall'ebreo italiano Giuseppe Sinigaglia quando la Palestina era ancora sotto mandato britannico.

Una volta rientrato l'allarme ci inerpichiamo sulla strada asfaltata fino ad arrivare a un grosso cancello giallo, che segna l'ingresso del kibbutz con un tripudio di bandiere israeliane.

Le case basse e ordinate di Hanita sono abbandonate da mesi. Non è rimasto nessuno dopo il 7 ottobre e l'inizio della guerra di attrito con Hezbollah, a parte un paio di anziani che si aggirano come fantasmi e non parlano con i giornalisti. L'ufficiale di scorta si infila nella vegetazione imbracciando il fucile. «Ci stiamo avvicinando al muro con il Libano» spiega sottovoce. A 150 metri la fila di lastre di cemento fa impressione: oltre c'è Hezbollah con i lanciarazzi nascosti sotto terra, i missili anticarro e i droni suicidi che esplodono sull'obiettivo.

Nel centro del kibbutz ci viene incontro il maggiore Erez Haddar, che comanda la squadra di pronto intervento. Un pugno di uomini in difesa del villaggio. «Siamo rimasti solo noi - spiega - per i civili è troppo pericoloso. Hezbollah non solo lancia di tutto, ma potrebbe anche cercare di infiltrarsi via terra». Poco dopo un'esplosione controllata fa saltare in aria una mina appena scoperta. A parte il botto e l'allarme rientrato c'è un silenzio raggelante, come se da un momento all'altro ci si aspettasse il peggio. Haddar, fisico da atleta e fucile mitragliatore a tracolla, non si distacca mai da una grossa radio portatile. Davanti a un asilo tira su da terra i resti di un drone kamikaze saltato in aria seminando schegge. La facciata di un edificio bianco è ridotta ad un groviera. Macchinine di plastica, pupazzi e altri giocattoli dei bambini sono ancora disseminati alla rinfusa. «Guarda il buco su questa poltrona a cinquanta metri dall'impatto dove era seduto un mio soldato. La scheggia l'ha colpito dopo essere passata da parte a parte. Per fortuna è sopravvissuto» spiega il maggiore. Un altro drone suicida iraniano ha carbonizzato un'intera area. «Questo è il bunker - intima il capo squadra - Se suona l'allarme ti proteggo le spalle, ma devi correre e buttarti subito di sotto» lungo una ripida scalinata.

La squadra di pronto intervento è composta da veterani della riserva, che parlano poco, ma sembrano tosti. Niente nomi e riprese in volto. Un militare mostra orgoglioso le foto di quando combatteva in Ucraina all'inizio dell'invasione russa. Poi è venuto a difendere Israele. Nel bunker di comando dove ti offrono un ottimo caffè c'è chi strimpella con la chitarra.

Una schiera di casette del kibbutz deve essere stata evacuata in gran fretta. Sul tavolo sotto una veranda ci sono ancora tre bottiglie di birra impolverate e semi vuote.

Poco più avanti il tetto della casa del maggiore non esiste più: un razzo l'ha polverizzato appiccando un incendio. In caso di attacco iraniano il kibbutz fondato dagli italiani rischia di essere il primo a finire sotto tiro.

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