Nel nome di John Brown. Se la rabbia di giustizia porta alla guerra civile

Lo spirito del martire che incarnò la lotta giusta e spietata contro la schiavitù non ha mai smesso di infiammare l'America. Ma è violenta e intollerante

Nel nome di John Brown. Se la rabbia di giustizia porta alla guerra civile

E se fosse anche un po' colpa sua, del santo vendicatore che massacrava gli schiavisti? La questione non è per niente facile.

Il predicatore violento che combatte per salvare gli schiavi alla fine ha scelto la strada migliore o ha portato l'America all'inferno, rendendo la guerra civile inevitabile? I buoni sono buoni anche quando sono assassini?

C'è l'intolleranza di chi sente un profeta della libertà? Tutto questo per dire che l'America va in crisi quando ci sono ingiustizie e allo stesso tempo lo spirito di John Brown fa perdere la ragione a minoranze che si sentono in missione per conto di Dio. È che i profeti non sempre fanno la mossa giusta.

John Brown muore all'alba, il 2 dicembre 1859. Sale sul patibolo a Charlestown con la compostezza dei santi e la durezza degli eretici. Ha cinquantanove anni, la barba che gli cade sul petto, lo sguardo di chi sa di avere già scritto la sua parte di storia. L'esecuzione è pubblica, la folla accorre, eppure sembra lui a osservare tutti, non il contrario. Morirà impiccato per aver tentato di incendiare l'America, di liberare gli schiavi con la forza, di rovesciare un ordine antico e feroce. Non lascia pianti, ma una canzone. Quella canzone marcerà più avanti con l'esercito del Nord, diventerà un inno, un coro che dice che il suo corpo marcisce nella tomba, ma la sua anima continua a camminare. "John Brown's body lies a-mouldering in the grave, his soul goes marching on". Non è solo musica, è profezia.

È il segno che le idee non muoiono con i corpi, che il martirio ha un prezzo, ma anche un'eredità. Brown non aveva vinto nulla, la sua spedizione a Harpers Ferry era stata un fallimento, eppure la sua morte trasformò la sconfitta in seme. La guerra civile era ancora un orizzonte, ma già respirava nei canti.

John Brown si batteva senza compromessi per abolire la schiavitù. Nel 1837 la sua vita cambia, il punto di svolta è il linciaggio avvenuto ad Alton, in Illinois, del giovane reverendo Elijah Parish Loveloy, predicatore abolizionista assassinato da un tumulto di schiavisti. Fu allora che Brown pronunciò il suo manifesto politico noto come "giuramento di Annibale" con queste parole: "Qui, dinanzi a Dio Altissimo, in presenza di questi testimoni, da questo momento in poi giuro di portare odio eterno nei confronti dello schiavismo e consacro la mia vita alla sua definitiva e totale distruzione". Solo che da qui in poi non conosce misericordia. Diventa l'estremista delle cause giuste. Non percepisce la misura, non crede al compromesso, non pensa che la politica possa risolvere con lentezza ciò che lui giudica un male assoluto. La schiavitù non era per lui un problema di bilanci o di leggi federali: era bestemmia, era catena sul cuore, era lacerazione dell'umano. Chi poteva guardare negli occhi un uomo incatenato e dire che era ancora tollerabile?

La sua risposta fu semplice: non si può. Bisogna agire, subito, anche a costo di tutto. È così che John Brown contribuisce a gettare l'America in una disumana guerra civile e per cinque anni, dal 1855 al 1860, insanguina il Kansas. È una mattanza di coloni schiavisti. È azione e reazione. È l'idea fondamentalista che nel nome di Dio e della giustizia si può uccidere senza pietà. L'assalto all'arsenale federale di Harpers Ferry segna la sua fine. È lì che viene catturato e poi condannato. A sconfiggerlo sarà il comandante del corpo dei Marines, il colonnello Robert Edward Lee che un anno dopo avrebbe guidato l'esercito confederato.

Il martire vittorioso e il generale sconfitto. Ora, si dice, non si può non amare John Brown e al primo approccio è davvero così. Solo che quando in America vince lo spirito di John Brown non c'è più spazio per le parole. È l'idea che in nome di un principio, giusto nel caso dell'abolizione della schiavitù ma non è detto che sia sempre così, la strada maestra sia ammazzare chi non la pensa come te. John Brown non si confronta, John Brown spara. La sua canzone attraversò l'Atlantico, divenne coro da chiesa, eco di cortei, richiamo per generazioni che vedevano nell'America una promessa tradita. Eppure quella canzone non è rimasta nel XIX secolo. Ogni volta che l'America smette di parlare con se stessa, ogni volta che le parole si spezzano in urla e insulti, ogni volta che la sconfitta non viene accettata, la voce di John Brown torna a vibrare. È il fantasma che ricorda come finiscono le democrazie quando perdono il linguaggio comune.

Cosa sta succedendo in America? È saltato il principio fondante, il riconoscimento della sconfitta, il gesto che permette alla democrazia americana di non sbriciolarsi in mille pezzi.

Trump con l'assalto a Capitol Hill ha dato un colpo letale, gli intolleranti anti trupiani sono passati alle armi, una pallottola fortunata contro Donald, l'altra drammatica che uccide Charlie Kirk. Sì, anche questo fa parte dello spirito di John Brown, spinto fino al non senso, al nichilismo di chi odia senza ragione. "E pluribus unum", il motto inciso sui sigilli e nelle monete, significa che dal molteplice nasce l'uno. Ma se l'uno si spezza? Se le differenze non si riconoscono più dentro un orizzonte comune, allora il molteplice resta solo moltitudine, folla senza patria. È quello che si respira in America oggi, nelle piazze e nelle urne, nei social e nei tribunali. Una parte non riconosce la vittoria dell'altra, non ammette la sconfitta, non accetta che la democrazia è anche perdita. La parola non è più ponte, ma lama. E in questo clima ogni John Brown può tornare, non come uomo in carne e ossa, ma come simbolo di frattura. La forza e la maledizione dell'America è che vive di simboli. La sua anima marcia davvero, come diceva la canzone, e lo fa in ogni conflitto che la attraversa. John Brown non è stato solo un uomo del suo tempo, è diventato una parabola. Racconta che senza un linguaggio condiviso, senza la possibilità di fermarsi e dire "abbiamo perso, ora ricominciamo insieme", non resta che la corda del boia, la spada, la polvere dei campi di battaglia. Oggi, guardando l'America spaccata in due, con la rabbia che cresce, con il sospetto che diventa odio, con la sconfitta che non viene accettata, torna quel monito. Quando il molteplice non riconosce più un denominatore comune, l'unità si dissolve. Allora la canzone di John Brown non è memoria, ma futuro possibile.

Il suo corpo resta nella tomba, ma la sua anima marcia

ancora. E non è detto che lo faccia sempre dalla parte giusta. Dio stramaledica John Brown e tutti i suoi avversari. Glory, Glory! Hallelujah!, Glory, Glory! Hallelujah! Glory, Glory! Hallelujah! His soul is marching on.

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