Roma - In ordine sparso, nel deserto. Così avanzano le derelitte reliquie di un partito che si disse democratico praticando l'idolatria. Un Pd ormai giunto al bivio (anche nel deserto ne esistono). Attardarsi su un modo di pensare bolso e perdente, come quello che emerge dalle dichiarazioni di Orfini e Serracchiani, che pure al Nazareno occuparono poltrone di prima fila. Oppure passare i al più classico dei contrordine, compagni: rifondare il Pd con la discesa in campo ormai conclamata di Nicola Zingaretti.
«Io ci sono», ha mandato a dire tramite intervistona al Corsera l'immarcescibile trait d'union del vecchio col nuovo, del veltronismo bettiniano con l'esperienza dei D'Alema e dei Bersani, del governatore che predica l'«allargamento oltre i confini»: verso sinistra, ma soprattutto verso i Cinquestelle, «corpaccione dove dentro c'è un po' di tutto» che Zingaretti propone di «disarticolare», sicuro che siano geneticamente frutto «di identità diverse» e quindi destinati alla scissione (che «errore» non praticare un'iniziativa «verso questo mondo» dopo la sconfitta del 4 marzo, accusa).
Opposizione inconsistente, inconcludente e inesistente se non nei titoloni dei quotidianoni e dei Tg Rai, deriso e vilipeso dalla maggioranza giallo-verde, questo Pd rischia però l'estinzione in entrambi i casi. Nell'ottimistica versione zingarettiana si tratterebbe di una catartica Fenice. Lungo l'altra strada, invece, il populismo si fa grottesco, come quando la Serracchiani per attaccare la Lega salviniana non trova di meglio che dire, testualmente: «Pontida non è ancora Norimberga ma può diventarla». Genere di frasi che non conquistano consensi per la loro manifesta stupidità faziosa. Eppure neanche il presidente Orfini ci scherza, ora che accarezza l'idea di guadagnare terreno tra i candidati della maggioranza renziana, e non manca giorno che non provi a scalare la classifica sparandola grossa. Dopo aver indicato Minniti come responsabile della rovinosa sconfitta elettorale, ieri con il consueto, immotivato sarcasmo imparato alla corte di D'Alema ha snobbato Zingaretti reo di volere la «restaurazione di vecchi modelli». Quindi ha rilanciato via tweet il monito di altri (Francesco Cudari, un altro campione): «Non serve un'opposizione omeopatica». Orfini è come quei talebani che anelano il martirio e non vede oltre il naso (quello di Renzi, non il suo). Così liquida in un colpo solo il «manifesto» di Calenda per un Fronte repubblicano e la proposta di andare «oltre il Pd»: «Di manifesto conosco quello di Marx. Oltre il Pd? C'è la destra...».
Dopo due Direzioni e un'Assemblea nazionale, il futuro del Pd è come il morale: ancora rasoterra. Sabato prossimo, all'Ergife, si terrà una seconda Assemblea per decidere se tenersi Martina «reggente» o promuoverlo segretario anzitempo (ma ci spera solo il loffio reggente). Renzi, forte nei gruppi parlamentari, conterà anche qui su una maggioranza bulgara (700 delegati su mille). Impelagato nelle sue vicende immobiliari, l'ex leader è indeciso a tutto e non ha candidati da proporre: Guerini s'è sfilato subito e punta al Copasir; Gentiloni idem (prendere ordini da Matteo non è mai stato un piacere). Ergo, i renziani pensano di poter rinviare al 2019 congresso e primarie, magari per riuscire a fare «propria» la candidatura Zingaretti, presentandola come unitaria. Anche perché i «padri nobili» (Veltroni e Prodi) da tempo si sono espressi per Zingaretti. Il quale da tempo ripete ai suoi: «Non mi faccio candidare».
Lui vorrebbe la fase congressuale a novembre per celebrare le primarie a inizio anno, «comunque prima delle Europee». Zingaretti contro Salvini: più che una beffarda nemesi, sembra quasi il titolo di un film anni Settanta.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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