"Noi, il Cav e Montanelli". Le rivelazioni dei direttori

Agli Ibm Studios il tavolo con Sallusti, Feltri, Belpietro, Giordano e Minzolini, intervistati da Vespa: "Il Giornale, boccata d'ossigeno"

"Noi, il Cav e Montanelli". Le rivelazioni dei direttori

È il 12 novembre 2011. «Ad un certo punto di quella giornata interminabile mi chiama il presidente Berlusconi - racconta Alessandro Sallusti - e mi dice: Tieni aperto il Giornale, perché fra qualche minuto mi dimetto. Tento di dissuaderlo, Ma perché? E lui mi risponde così: Dopo aver ascoltato i pareri di tanti miei collaboratori, mi sono chiuso nel mio studio e ho consultato Ennio Doris e Doris mi ha suggerito la scelta giusta: Silvio, ti stanno facendo la più grande porcata, ma per il bene del Paese dimettiti».

Cinque direttori sul palco - con Sallusti, Vittorio Feltri, Maurizio Belpietro, Mario Giordano, Augusto Minzolini - e un cerimoniere d'eccezione, Bruno Vespa, moderatore di una tavola rotonda che è un affresco di mezzo secolo di storia italiana.

Sono dunque le ultime ore del Cavaliere a Palazzo Chigi dove non tornerà più.

Anche Maurizio Belpietro, di fatto al comando in via Negri dal 1997 al 2007, ripesca due telefonate di quei giorni convulsi: «Ho in mente la chiamata di Berlusconi, ma anche quella che ricevetti da Francoforte. Mario Draghi fu molto netto: Ti prego, di' a Berlusconi di non far fare un governo tecnico a Mario Monti. Guarda che lo spread era molto elevato anche con Prodi. Il tema non è lo spread, ma la stabilità del Paese. Quella fu un'operazione politica fortemente voluta dal Presidente Giorgio Napolitano. Senza quell'intervento secondo me non ci sarebbe stata la scissione del Pdl e i vari addii di Fini, Alfano e Verdini».

Siamo nella cornice degli IBM Studios fra i grattacieli scintillanti di Porta Nuova, nel cuore della Milano del ventunesimo secolo, ma i cinque direttori raccontano questi cinquant'anni. O meglio, gli ultimi trenta, dalle dimissioni di Indro Montanelli in poi, anche se Sallusti, oggi di nuovo al timone del quotidiano fondato nel 1974, si sbilancia sul futuro: «C'è stata e c'è una grande crisi dell'editoria, ma i giornali non moriranno secondo me, perché dettano ancora l'agenda dei talk e degli argomenti che poi dilagano sui social».

Si torna dunque al 1994 e all'arrivo in via Negri di Vittorio Feltri. Anzi, qualche mese prima: «Ero direttore dell'Indipendente, un foglio che aveva avuto una progressione straordinaria, e andai a trovare Berlusconi. Il Cavaliere mi disse che avrebbe fondato un nuovo partito e mi copiò pure il nome chiamandolo Forza Italia, come una mia vecchia trasmissione televisiva. Tutti pensano che lui fosse un dittatore e invece lui mi chiese solo di fare il Feltri, cosa che mi veniva facile, e non mi chiamò mai per impormi nulla. Anzi, ricordo che all'inizio era incerto su chi mettere alla testa del movimento politico che stava nascendo. Mi buttò lì due nomi: Segni e Martinazzoli. Io lo ascoltai, poi gli dissi: Ma sei matto? O lo fai tu o non lo fa nessuno. È così lo convinsi».

Dopo Berlusconi, Montanelli, con Vespa inesauribile nel narrare a sua volta aneddoti e suggerire spunti di cronaca: «Con Montanelli - riprende Feltri - andavamo a mangiare alla Tavernetta in via Fatebenefratelli. Era un uomo dai gusti semplici e mi piaceva moltissimo. Quando uscì il mio primo editoriale, lui mi chiamo e mi fece i complimenti aggiungendo: L'unica cosa che mi dispiace è che non l'abbia firmato io».

Insomma, un signore d'altri tempi anche se se ne andò con tutto il suo prestigio e un bel pezzo della redazione. L'addio del fondatore fu un trauma, ma il giornale non fu fagocitato dalla «Voce» e anzi le copie lievitarono fino quasi a quota 250mila.

Ricomincia così un'avventura che arriva ai giorni nostri. Il Giornale e gli infiniti arabeschi del potere. Mario Giordano, direttore dal 2007 al 2009, rompe però quel tetto di cristallo: «Certo, eravamo attenti a quel che succedeva fra i corridoi del Parlamento e nelle stanze del Governo, ma il Giornale, il Giornale in cui ero cresciuto e che poi ho diretto, era anzitutto per noi una boccata di ossigeno, la possibilità di guardare più alla società che al Palazzo. Certo, poi non siamo ingenui e sappiamo anche tutto il resto. Seguimmo da vicino il discorso di Berlusconi a Onna, il 25 aprile 2009, forse il suo momento più alto, ma fatalmente anche l'incipit della sua caduta».

Subito dopo Onna, Berlusconi va a Casoria, come puntualizza Vespa, e si inizia a parlare di Noemi e delle altre ragazze. Comincia la stagione delle Olgettine e la stella del Cavaliere si appanna.

Episodi noti e altri sconosciuti. Ci si sofferma sul Quirinale e sul ruolo niente affatto notarile di Oscar Luigi Scalfaro, che Feltri aveva ribattezzato «il Campanaro» e soprattutto sulle mosse di Napolitano. «Re Giorgio». Si, perché non c'è solo l'invasione di campo con la creazione quasi sartoriale del governo Monti. «Era il 2010 - rievoca Minzolini - e in quel momento dirigevo il Tg1. Fini era in ascesa e Berlusconi, per quello che abbiamo appena detto, era in difficoltà. Era appena nato Fli e insomma Fini pensava di disarcionare il Cavaliere. Io in un editoriale avanzai l'ipotesi del ribaltone e mi ricordo che a un certo punto suonò un telefono che di solito era muto. Era Napolitano che mi contestava proprio quella parola, ribaltone, che pure era ampiamente usata nel gergo giornalistico».

Non finisce qua: «L'avvocato Coppi mi raccontò che nell'agosto 2013, subito dopo la condanna definitiva del Cavaliere, Napolitano si presentò nel suo studio e gli disse in sostanza che gli avrebbe concesso la grazia, ma in cambio Berlusconi avrebbe dovuto lasciare la politica».

Vespa trae una conclusione, alla sua maniera: «Napolitano sarebbe stato perfetto per un sistema semipresidenziale alla francese».

Riflessione che spinge sempre Vespa a sostenere la bontà, pur con tutti i possibili distinguo tecnici, di una riforma come quella del premierato. Non possono esserci esecutivi partoriti da congiure di Palazzo, tradendo la volontà dei cittadini.

Da Monti a Draghi, è proprio questa la trama faticosa di un periodo confuso: «A me è toccato il compito più difficile - riprende Sallusti, direttore del Giornale dal 2010 al 2021 e poi, dopo il biennio minzoliniano, dal 2023 a oggi - perché è stato il periodo meno eroico del centrodestra e la democrazia era finita in un limbo, con premier che hanno governato con le formule più strane.

Con il ritorno di Giorgia Meloni, nell'ottobre 2022, si sono ripristinate le condizioni di agibilità giornalistica più chiare rispetto al decennio precedente».

Un'altra fase, appena iniziata, che il Giornale è pronto a interpretare.

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