"L'Unesco ha messo nero su bianco quello che già era chiaro in tutto il mondo. Per me la cucina italiana era già patrimonio dell'umanità prima che lo dicessero loro".
Cesare Battisti è l'oste di Ratanà, una delle migliori trattorie di nuova generazione di Milano. Considerato un precursore della rivisitazione della tradizione (nel suo caso quella lombarda) in chiave contemporanea, sana e sostenibile e un sostenitore del legame tra città e campagna, tra cuoco e piccoli produttori. A lui chiediamo di commentare le buone notizie arrivate ieri da New Delhi.
Battisti, è contento?
"Sì, ma per come la vedo io la cucina italiana era già da prima quella più ambita e copiata. Un patrimonio fatto non solo di ricette ma anche e soprattutto di cultura, di tradizioni, di saper vivere, di socialità, di familiarità, di gestualità. Noi abbiamo messo a tavola il mondo e abbiamo una ricchezza gastronomica seconda solo a quella della Cina, che però ha cento volte la nostra popolazione (solo 24 in verità, ma non stiamo a sottilizzare, ndr)".
Da cosa deriva questa ricchezza di cultura gastronomica?
"Dal melting pot culturale di cui siamo impastati. Noi abbiamo preso dalla Francia, dalla Spagna, dall'Austria, la Sicilia è stata per secoli sotto l'influenza dei Mori. Abbiamo dei linguaggi gastronomici talmente vasti che siamo considerati l'esempio nel mondo di come si deve cucinare".
Solo una questione culturale, quindi?
"Certo che no. In Italia ci sono 187mila ristoranti che assorbono il 30 per cento della filiera agricola. Abbiamo un'incredibile ricchezza di prodotti, da quelli più umili a quelli di altissimo livello. Quanti italiani sanno che noi produciamo il 30 per cento del caviale del mondo, e di altissimo livello? Poi abbiamo il tartufo più buono del mondo, un mare chiuso, il Mediterraneo, che ci dà il pesce migliore che c'è, abbiamo un clima perfetto per affinare i salumi, abbiamo il tonno che il Giappone si accaparra, abbiamo cinque razze bovine autoctone di eccellenza".
Ma alla fine, è il successo dell'alta cucina o della cucina popolare?
"Ma la cucina italiana è una cucina profondamente popolare, le nostre basi, i piatti italiani più amati e imitati nel mondo, sono semplici. Da noi è sempre stato il popolo a mangiare bene, e ancora di più i contadini. Da questo punto di vista la cucina italiana è molto diversa da quella francese, nata nei grandi palazzi. Ma adesso è giusto che ci sia orgoglio nell'alta cucina, nelle osterie, nelle trattorie, dovunque. Perché ognuno porta il suo tassello al mosaico vincente".
Cosa porterà questo riconoscimento?
"In termini di indotto economico secondo me non molto. Quello che porterà è che potrà essere insegnato nelle scuole. E che i cuochi avranno, almeno mi auguro, una responsabilità sociale molto più grande. Dovremo tutti tenere più alta la bandiera".
Potrebbe anche essere l'occasione per sedersi tutti, governo, ristoratori, chef, attorno a un tavolo per aiutare il settore della ristorazione, che in fondo rappresenta la punta di diamante di questo sistema vincente?
"No, perché secondo me la politica non sa gestire un discorso dall'inizio alla fine e non credo che abbia né le capacità né l'intenzione di mettere attorno a un tavolo gli attori del settore. Lo abbiamo visto con l'Expo di Milano del 2015, l'abbiamo visto con il Covid, che sarebbe stata l'occasione per una profonda riorganizzazione. I politici fanno le sparate, poi è tutto demandato ai piccoli attori. E poi vediamo i risultati".
E quali sono questi risultati?
"Che la ristorazione italiana fa molta fatica".