
Con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, la frattura tra presidenza e apparato informativo non è più un retroscena: è il cuore del problema. La direttrice della National Intelligence, Tulsi Gabbard (foto), ha riferito che l'Iran non ha riattivato il proprio programma nucleare, sulla base del consenso dell'intera comunità di intelligence. "Non mi interessa cosa ha detto", ha dichiarato Trump. Per poi aggiungere: "La mia intelligence sbaglia". Tali dichiarazioni minano la credibilità di un sistema fondato su un equilibrio delicato tra analisi e potere.
Dopo l'11 settembre 2001, l'intelligence americana è stata sottoposta a una profonda revisione. I fallimenti che impedirono di prevenire l'attacco misero in luce gravi criticità: compartimentazione, frammentazione operativa, assenza di visione d'insieme. Da lì, le riforme: prima il Dni, poi con Obama cybersicurezza e tecnologie predittive. Ma lo scandalo Snowden (2013) ha mostrato quanto fosse difficile bilanciare efficacia e garanzie democratiche.
In realtà, la forza dell'intelligence americana non è mai derivata dall'assenza di difetti, ma dalla capacità di riconoscerli. In un ecosistema liberale, l'errore si discute, il dissenso si tollera. È questa apertura fragile, ma reale che ha garantito al sistema una certa adattabilità. Finora. Oggi, per la prima volta, il vertice politico non si limita a indirizzare: punta a svuotare la funzione dell'intelligence, riducendola a strumento personale.
Il confronto con contesti meno aperti rende più visibile la soglia che stiamo oltrepassando. Si consideri il caso russo.
Il tentato golpe del gruppo Wagner nel giugno 2023 e l'attentato jihadista alla Crocus City Hall nel marzo 2024 hanno rivelato la vera natura dell'intelligence russa: non uno strumento di analisi del rischio, ma una macchina di stabilizzazione politica. In entrambi i casi è emersa una crisi profonda, segnata da deferenza, propaganda, opacità e controllo. Le agenzie non comunicano tra loro, frenate dal timore di contraddire il vertice. A marzo, Mosca ignorò un'allerta americana su un attentato imminente, liquidandola come "provocazione". Dopo l'attacco dell'ISIS-K, il Cremlino accusò senza prove l'Ucraina, preferendo la propaganda all'esame dei propri errori. Errori che si ripetono, perché l'intelligence non risponde a nessun controllo esterno.
La vicenda Wagner ha rivelato il limite più profondo del sistema: l'apparato informativo non è progettato per anticipare le crisi, ma per reprimere il dissenso. Anche il servizio di intelligence militare ha fallito nel cogliere una minaccia interna evidente. Il sistema resta fedele alla logica del KGB: sorvegliare il nemico interno più che comprendere il contesto.
Oggi quell'equilibrio si sta incrinando. L'attacco di Trump alla direttrice Gabbard rientra in una più ampia sequenza di rimozioni, delegittimazioni e diffidenza sistemica. Secondo The Economist, Trump con l'appoggio della stessa Gabbard avrebbe allontanato alti funzionari dell'intelligence, accusati di slealtà o di politicizzazione, alimentando un clima di sospetto e intimidazione. Quando viene meno il contesto istituzionale che garantisce autonomia e spirito critico, l'intelligence smette di anticipare il rischio e non protegge più il Paese. Si innescano reazioni a catena: autocensura, analisi opache, sfiducia pubblica. E anche all'estero gli alleati cominciano a dubitare: senza trasparenza, l'autorevolezza dell'intelligence americana vacilla.
In un mondo che accelera più delle istituzioni, non serve un apparato che conferma il potere: serve un'intelligence capace di interrogare la realtà.
Come nella scienza, l'efficacia nasce anche dalla libertà di porre domande, di sbagliare, di correggere. Senza autonomia analitica, non c'è conoscenza utile e senza conoscenza utile, non c'è sicurezza.*Ordinario di Diritto comparato Unint-Roma