L'Ecofin fa il compitino con l'approvazione ieri di Sure, la cassa integrazione Ue da 100 miliardi di euro, ma non affronta quella parete di terzo grado che si profila essere il Recovery Fund. La proposta annunciata lunedì da Emmanuel Macron e Angela Merkel rischia infatti di far storcere il naso un po' a tutti. L'Austria lo ha già fatto platealmente, dichiarandosi contraria. Danimarca, Olanda e Svezia sono sulla stessa linea. Non piace la rottura di un tabù come quello della mutualizzazione del debito insita nell'idea franco-tedesca. Il ministro austriaco delle Finanze, Gernot Bluemel, ha rincarato ieri la dose: «Ci rifiutiamo di finanziare prestiti non rimborsabili» per uscire dalla crisi. In effetti pare che i quattrini saranno distribuiti a fondo perduto, come precisato dalla Merkel e da Macron (che ieri ha avuto una conversazione telefonica col premier Giuseppe Conte), mentre il riferimento ai prestiti da restituire contenuto nel documento (binding repayment plan, «piano di rimborso vincolante») riguarderebbe i fondi presi dagli Stati membri.
I 500 miliardi di risorse fresche andranno reperiti attraverso il collocamento di obbligazioni, e la garanzia sarà il bilancio comunitario. Non a caso, proprio al termine della riunione dei ministri delle Finanze, il vicepresidente della Commissione Ue Valdis Dombrovskis ha detto che serve un «accordo rapido» sul Quadro finanziario 2021-27. Proprio il punto su cui i Paesi si accapigliavano la scorsa settimana senza trovar la quadra sull'entità della contribuzione.
Posto che nel bilancio comunitario si verrà a creare, all'inizio del 2021, un buco da 40 miliardi a causa dell'uscita della Gran Bretagna, si pone quindi un problema di maggiori coperture visto come è configurato il fondo. Anche l'Italia dovrà fare la propria parte: i 16 miliardi finora versati, a fronte dei 10 miliardi ricevuti, potrebbero diventare molti di più, forse una sessantina in base all'ammontare del nostro Pil, rispetto ai 135 della Germania. In cambio, Roma potrebbe beneficiare di una somma attorno ai 100 miliardi, ma spalmata su un triennio data l'impossibilità di emissioni superiori ai 100 miliardi l'anno.
In pratica, il Recovery Fund riserverebbe al nostro Paese una cifra annua inferiore a quella prevista con l'attivazione del Mes (36-37 miliardi), ma complessivamente superiore per quasi due terzi e con un «avanzo» finale di una quarantina di miliardi (60 versati, contro i 100 incassati). Il saldo positivo sembra indicare l'assoluta convenienza del fondo per la ricostruzione, ma non va trascurato un tassello fondamentale. Rispetto al fondo salva-Stati, maggiori appaiono infatti le condizionalità cui dovrà sottoporsi il Paese che ne usufruisce. I finanziamenti «si baseranno su un chiaro impegno da parte degli Stati membri a perseguire politiche economiche virtuose e un ambizioso programma di riforme», recita il documento franco-tedesco. Un passaggio probabilmente indigesto ai Paesi del Sud perché pare rievocare le vecchie ricette care agli squadroni dell'austerity, con un conto salato da pagare sotto forma di tagli al welfare, nuove tasse e privatizzazioni. Obiettivo, raddrizzare i conti pubblici. L'Italia, che già a fine anno potrebbe trovarsi con un rapporto debito/Pil al 160%, sarebbe subito inguaiata nel caso fossero ristabiliti, una volta terminata la pandemia, i parametri previsti dal Patto di Stabilità. La presidente della Bce, Christine Lagarde, ha sollecitato una riforma del Patto prima del suo ripristino. Una sponda che rischia di risultare urticante per i Paesi rigoristi.
Così come in Germania i fan della sentenza della Corte di Karlsruhe avversa al quantitative easing avranno poco apprezzato le parole del capo economista dell'Eurotower, Philip Lane, che ieri ha ribadito come l'istituto possa espandere ed estendere il programma di acquisto di bond in risposta alla pandemia «di quanto necessario e per il tempo necessario».
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