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Quell’assurda guerra che ha distrutto le vite di tanti servitori del Paese

Oltre agli assolti di ieri, un lungo elenco di uomini delle istituzioni è finito nel tritacarne di magistrati che hanno costruito le proprie carriere sulla pelle altrui.

Quell’assurda guerra che ha distrutto le vite di tanti servitori del Paese

Francesco Messineo, Roberto Tartaglia, Vittorio Teresi, Antonino Ingroia, Antonino Di Matteo, Roberto Scarpinato, Alfredo Montalto, Giuseppe Fici, Sergio Barbiera. È lungo l'elenco dei magistrati che in questi anni hanno cavalcato la tesi che raccontava al mondo la storia di uno Stato un po' fellone e un po' colluso, attraversato e dominato da poteri oscuri, pronto a scendere a patti con il contropotere criminale di Cosa Nostra. Ancora più lungo, purtroppo, è l'elenco di quelli che in questo tritasassi sono stati inghiottiti. Ci sono i quattro assolti di ieri: l'ex senatore Dell'Utri, i carabinieri Mori, Subranni, De Donno. Ma insieme a loro sono stati tritati in tanti: altri uomini dell'Arma come Mauro Obinu e Sergio De Caprio, uomini delle istituzioni come Nicola Mancino e Calogero Mannino. Per non parlare di quelli che nemmeno si poterono difendere perchè già morti o morti nel frattempo, come il capo della polizia Vincenzo Parisi, il ministro Giovanni Conso, i magistrati Francesco Di Maggio e Adalberto Capriotti, Loris D'Ambrosio. Tutti tirati in ballo, tutti in un modo o nell'altro protagonisti e comprimari di una trama che avrebbe legato in un patto scellerato le istituzioni repubblicane e il crimine organizzato, immolando i propri doveri e funzioni in cambio di non si sa bene quali vantaggi. E tutti sepolti in un fango grigio dove tutti in qualche modo sono colpevoli, non si sa bene di cosa.

Adesso che tutto è finito (o quasi: perchè c'è sempre la procura di Firenze alla caccia dei mandanti occulti delle stragi del 1993) sarebbe interessante capire come sia stato possibile che un simile castello sia stato architettato, e tenuto in piedi per un decennio; analizzare i rapporti occulti ma non troppo tra la procura di Palermo e il mondo dell'informazione che hanno portato in continuazione cemento al cantiere. Missione difficile, forse impossibile. Di certo rimane la genesi di tutto: che ha le sue radici in un'altra inchiesta della procura palermitana, chiamata «Sistemi criminali», condotta da Ingroia e dal suo collega Roberto Scarpinato, che già navigava tra servizi deviati, colletti bianchi, politici collusi e quant'altro. Inchiesta partita con le migliori intenzioni, che finisce però in nulla: al punto che la stessa Procura deve archiviare il fascicolo.

Ma Ingroia non si arrende, e poco dopo riparte, stavolta insieme al collega Di Matteo. Il loro capo, Messineo, arrivato a Palermo nel 2006, lascia ai due pm briglia sciolta. Il tema è quello dell'inchiesta precedente, riveduto e arricchito. Nel pool entrano altri pm: Francesco Del Bene, Lia Sava, Paolo Guido. Al momento di tirare le fila, Guido rifiuterà le conclusioni dei colleghi e non firmerà l'atto finale: oggi è il magistrato che ha condotto la caccia vittoriosa a Matteo Messina Denaro.

L'inchiesta, come tutti i teoremi, germina strada facendo una serie di corollari, sempre alla caccia dei favori che Cosa Nostra avrebbe ricevuto in cambio dello stop alle bombe. Mori e De Caprio vengono indagati per non avere perquisito il covo di Riina, Mori per non avere arrestato Provenzano a Mezzojuso, Mancino per avere mentito, e via così in una sfilza di processi satellite tutti conclusi in niente. Gli insuccessi non frenano i pm palermitani. E non li frena neanche la caccia infruttuosa alle contropartite ottenute da Cosa Nostra. Gli atti dei tre governi succedutisi negli anni in cui la trattativa sarebbe avvenuta (Amato, Ciampi, Berlusconi) vengono passati al setaccio per individuare provvedimenti graditi ai clan. A venire frugato più di tutti è il governo Berlusconi, cui le richieste dei clan sarebbero arrivate attraverso Dell'Utri: ma non salta fuori niente. E alla fine l'unico atto che rimane sul tavolo è quello firmato dal ministro della Giustizia di Ciampi, quel galantuomo di Giovanni Conso, che sposta dal 41 bis trecento mafiosi. Conso non viene incriminato, testimonia, si difende spiegando di avere agito in ossequio alla Corte Costituzionale, di cui era stato presidente e che dubitava della legittimità del 41 bis.

Ma per autori e propagandisti del teorema non cambia nulla. Il fantasma delle «menti raffinatissime» è un brand di troppo successo per essere abbandonato. E anche ora che tutto si sgretola c'è chi non si arrende, e evoca - chiamandola proprio così - la «Supercosa»: che esiste od esisteva aldisopra di Totò Riina, nel magma tra Stato e Antistato.

Magari non esiste, ma fa audience.

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