
Le premesse per un attacco israeliano alle infrastrutture nucleari iraniane stavolta ci sono tutte, tanto che Teheran ha ordinato l'avvio di una serie di esercitazioni militari. Anzi Bibi Netanyahu - il premier israeliano che da due decenni sogna di azzerare il potenziale atomico della Repubblica Islamica - non potrebbe auspicare una congiuntura più propizia. Sul piano militare, Israele può ancora contare sul vantaggio conseguito lo scorso ottobre quando un suo raid eliminò gran parte delle postazioni contraeree iraniana. Postazioni che probabilmente Teheran non è riuscita a rimpiazzare. Un vantaggio a cui si aggiunge la distruzione delle contraeree siriane colpite sistematicamente dopo la caduta del regime di Bashar Assad.
Grazie a queste spregiudicate operazioni militari, i circa 1500 chilometri di volo che separano le basi israeliane dalle infrastrutture nucleari iraniane sono diventati una sorta di autostrada parzialmente priva di insidie. Anche se non è chiaro come Israele possa pensare di distruggere delle infrastrutture come quelle di Ferdow sepolte sotto ottanta metri e più di cemento e roccia. Un ostacolo che solo le bombe americane GBU 87, mai fornite ad Israele, potrebbero disintegrare.
Ma a regalare a Netanyahu motivazioni strategiche e politiche contribuisce anche un'Aiea (Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica) tornata, dopo vent'anni di negoziati, ad accusare Teheran di celare quasi cinquecento chili di uranio arricchiti a livelli ben superiori a quelli previsti per uso civile. Quanto basta, stimano gli analisti, per mettere insieme una decina di ordigni nucleari. Proprio quest'accelerazione di Teheran nel campo dell'arricchimento dell'uranio associata ad un evidente irrigidimento sul fronte dei negoziati con gli Stati Uniti, avrebbe finito con lo scoraggiare Donald Trump. Tanto da spingerlo ad ammettere di «essere sempre meno fiducioso che Teheran possa accettare di rinunciare all'arricchimento dell'uranio». Ipotesi confermata dai portavoce iraniani pronti a dichiarare di «non essere disposti a compromessi» che prevedano la chiusura o lo smantellamento delle proprie infrastrutture.
Il presidente americano spera ancora in un'intesa: «L'accordo è vicino, non voglio che Israele attacchi. L'attacco di Israele è una possibilità, ma non è imminente». Ma a spingere Netanyahu all'azione contribuisce anche la situazione politica israeliana. Un blitz rapido e vincente gli restituirebbe il sostegno dei partiti ultra-ortodossi pronti a far crollare un governo colpevole di non aver approvato la legge sull'esenzione dall'obbligo militare per gli studenti delle scuole religiose. E a confermare il possibile imminente attacco contribuisce l'ordine di «evacuazione ordinata» di tutti i famigliari di militari e diplomatici presenti in ambasciate e basi statunitense dislocate nel raggio d'azione dei missili iraniani o delle milizie sciite presenti in Iraq, Yemen e Libano. Insomma tutto sembra pronto per l'attacco israeliano.
Anche se restano in agenda i colloqui sul nucleare previsti per domenica a Muscat, capitale dell'Oman, tra la delegazione statunitense guidata dal negoziatore Steve Wittkoff e quella iraniana con a capo il ministro degli esteri di Tehran Abbas Araghchi. L'ultima spiaggia potrebbe essere proprio quella di Muscat. Anche se ormai pochi ci sperano.