L'Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, dopo "rispetto" nel 2024, ha selezionato "fiducia" come parola dell'anno del 2025 poiché ritenuta attuale e socialmente rilevante. "Fiducia" è risultato inoltre uno dei termini più cliccati sul portale treccani.it, il che mi appare emblematico: a volte l'essere umano ricerca sul web il significato profondo di ciò che più gli manca e che più desidera. È come cercare su Google la definizione di "onestà" mentre si infila la mano nel portafogli altrui. Se io dovessi individuare una parola dell'anno che volge al termine, invece, sceglierei "pacifismo".
Questo 2025 è stato infatti caratterizzato dalle grandi manifestazioni per la pace. Per la pace abbiamo sfilato, abbiamo organizzato crociate di barche e barchette dirette a Gaza, abbiamo urlato, abbiamo scioperato, abbiamo, come dicono i cosiddetti pro Pal, "bloccato tutto", ostacolando il godimento e l'esercizio di libertà costituzionali. Talvolta abbiamo bloccato perfino il cervello.
Perché, se le intenzioni erano buone - ammesso e non concesso che lo fossero - nella pratica abbiamo assistito al dilagare di violenze di ogni tipo, caratterizzate da odio antisemita e ferocia contro lo Stato. Il bilancio dei feriti è indegno di uno Stato civile, e tuttavia sistematicamente minimizzato, giustificato, relativizzato. La violenza, oggi, è sempre colpa di qualcun altro. Giunto il Natale, tutto questo pacifismo declamato dovrebbe tradursi in amore, perdono, comprensione, generosità. Macché.
A me sembra che non siamo mai stati così str... Sventoliamo bandiere della pace servendoci di una mano. Nell'altra impugniamo una clava, pronti a bastonare chiunque non la pensi come noi. Predichiamo la non violenza, ma pratichiamo quotidianamente l'odio. L'odio per il vicino, per il diverso, per il dissenziente, per chi non si inginocchia davanti ai nuovi dogmi progressisti. E guai a ricordarlo: la pace urlata è spesso la maschera più elegante della guerra permanente. La guerra, infatti, domina nelle nostre città, dove ogni giorno si accoltella, si rapina, si aggredisce, si borseggia. Domina nelle famiglie, dove assistiamo a fatti di cronaca atroci. Domina nei rapporti umani, sempre più improntati all'aggressività, alla sopraffazione, alla totale assenza di empatia, all'opportunismo. Ma di questo non si parla. È più comodo manifestare per una pace astratta che interrogarsi sulla guerra quotidiana che abbiamo in casa. E così arriviamo al Natale, festa che dovrebbe ricordarci la nascita di Cristo, portatore di pace, di amore, di fiducia appunto. E cosa facciamo?
Facciamo regali. Mangiamo come se non ci fosse un domani. Difendiamo con le unghie e con i denti ogni tradizione che preveda panettone, lucine, aperitivi, cenoni, brindisi. Quelle sì, guai a toccarle. Quelle sono sacre. Il presepe, però, no.
Anche quest'anno abbiamo assistito ad atti di vandalismo, di scherno, di spregio verso i simboli cristiani. Presepi distrutti, deturpati, rimossi "per non offendere". Offendere chi? Non si sa. Forse nessuno, ma va di moda così: cancellare le proprie radici in nome di una inclusività distorta che prevede che siamo noi a inginocchiarci agli ospiti che non intendono integrarsi. Abbiamo demonizzato il presepe, simbolo non solo religioso ma culturale, storico, identitario. Un simbolo a cui io stesso, che mi definisco ateo sono terribilmente legato, che parla di famiglia, di umiltà, di fiducia, di speranza. E poi ci stupiamo se la fiducia sparisce. Se la pace non arriva. Se la società implode. Perché la pace non nasce dalle manifestazioni urlate, ma dai valori condivisi. La fiducia non nasce dai proclami, ma dalle radici, che vanno non solo difese ma anche nutrite. E le nostre radici sono cristiane, piaccia o no. Calpestarle non ci renderà più moderni, ma solamente più vuoti.
Se vogliamo davvero recuperare pace e fiducia, dobbiamo smettere di vergognarci di ciò che siamo. Salvaguardare i nostri simboli, la nostra cultura, la nostra identità. Per non smarrirci. Altrimenti continueremo così: pacifisti a parole, violenti nei fatti. Insomma, paci-finti. Buoni di facciata, cinici nell'anima. Ovvero buonisti. Con una bandiera arcobaleno in mano (o palestinese) e una molotov nell'altra.
Ho una strana sensazione quest'anno. Che il Natale sia diventato una gigantesca rappresentazione teatrale dell'ipocrisia. Terminato, ricominceremo ad indignarci, ci stracceremo le vesti per le grandi cause lontane. Quelle vicine non ci toccano. Sfiliamo per la pace a Gaza ma non salutiamo nemmeno il vicino di casa. Piangiamo per i bambini che muoiono di fame a migliaia di chilometri di distanza, ma scavalchiamo con fastidio il barbone che dorme, al gelo, sotto la nostra abitazione. È questa l'ipocrisia che regna sovrana: il dolore che vive a distanza da noi ci emoziona, quello vicino ci disturba. Le tragedie esotiche ci scaldano il cuore, quelle sotto i nostri occhi ci lasciano del tutto impassibili. Si condividono appelli per Gaza dal divano riscaldato, mentre fuori, nelle nostre città, c'è chi ha già iniziato a morire di freddo. Ma questi morti qui non fanno notizia. Non fanno tendenza. Non piacciono. Ed è così che seguitiamo a scendere in strada per la pace, armati e rabbiosi come si va alla guerra, ma non si costruisce nulla per crearla, l'agognata e reclamata pace. Nessuna mano tesa, nessun gesto concreto, nessuna rinuncia personale. Solo slogan, bandiere, cori. È il pacifismo da passeggiata natalizia, rumoroso, autoreferenziale, sterile. È il pacifismo criminale, che ha trovato nella pace nient'altro che una valida scusa per sfogare la rabbia, per picchiare, per spaccare tutto. E non mi capacito di come, nel frattempo, mentre ci riempiamo la bocca di parole come "solidarietà" e "umanità", continuiamo a distruggere i simboli che per secoli hanno rappresentato proprio quei valori, come il presepe. Che oggi offende, dicono. Mi è sorto un dubbio di recente e desidero condividerlo con voi: Gesù Bambino cosa e chi offende davvero? Io credo che lo abbiamo rimosso non perché offende gli islamici, questa è una scusa. Lo abbiamo rimosso perché ci inquieta. Perché rappresenta tutto ciò che noi non siamo più. Semplici, umani, veri, capaci di compassione autentica.
E anche quest'anno saremo soddisfatti per qualche ora: abbiamo salvato il cenone, ma non il senso. Abbiamo difeso le lucine, ma spento la coscienza.
Abbiamo rivolto un pensiero nei confronti di chi soffre a Gaza ma non nei confronti di chi soffre accanto a noi.Il Natale non è la festa della pace. È il festival internazionale della finzione. Un grande teatro dove recitiamo tutti la parte dei buoni. Senza avere il coraggio di esserlo davvero.