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Pacini Battaglia, il banchiere di Tangentopoli

Elemosiniere dei politici e custode di fondi neri. "In mezzo ai ricatti ci ho sempre vissuto"

Pacini Battaglia, il banchiere di Tangentopoli

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Cardiopatico, in punto di morte. Era il 1996 e il banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia, «Chicchi» per gli amici, era finito in carcere, al termine dei suoi funambolismi giudiziari. Graziato a Milano dal pool Mani Pulite era stato arrestato dalla procura di La Spezia, impegnata in un duro braccio di ferro con i colleghi lombardi: si trattava di riscrivere la storia delle indagini su Tangentopoli, scavando su luci e ombre del leggendario pool. Pacini Battaglia era il crocevia dello scontro: tra mezze ammissioni, intercettazioni, allusioni, messaggi oscuri. Grazie al cuore malconcio, ottenne di uscire. Tanto malconcio il cuore non era: ha battuto nel petto di Chicchi per altri ventisette anni. Si ferma per sempre ieri, e quest'uomo dei misteri viene sepolto nella cappella gentilizia di famiglia a Bientina, vicino Pisa.

Alto, grosso, simpatico, loquace. «In mezzo ai ricatti ci ho sempre vissuto», disse una volta, e chissà se era un ammissione o una vanteria. Nel marzo 1993 scavando sull'Eni il pool milanese arrivò al suo nome e chiese la sua cattura, la voce delle manette imminenti si sparse in procura, i cronisti andarono a chiedere lumi al giudice Italo Ghitti: chi arrestate? «Non posso dire niente». I giornalisti insistettero. «Uno appena sotto Gesù», rispose Ghitti. Si scatenò il panico, il totomanette impazzò per ore.

Quando saltò fuori che l'arrestato era lo sconosciuto Pacini Battaglia si sparse un po' di delusione. Invece quella del giudice Ghitti non era stata del tutto un'iperbole. Il banchiere italo-svizzero consegnò a Di Pietro e colleghi le teste dello stato maggiore di Dc e Psi, parlando di miliardi (in lire) di fondi neri dell'Eni trasferiti ai due partiti. Lo ringraziarono, gli restituirono il passaporto e Chicchi tornò in Svizzera. Tre anni dopo, quando il banchiere fu arrestato a La Spezia, in una intervista a Repubblica Piercamillo Davigo ammise: «Evidentemente non ci aveva detto tutto». Nel frattempo qualcuno degli accusati da Chicchi ci aveva lasciato la pelle: il presidente dell'Eni Gabriele Cagliari suicida a San Vittore, il tesoriere socialista Vincenzo Balzamo morto di crepacuore.

Elemosiniere di politici, mediatore di appalti, custode di fondi neri, la multiforme personalità di Pacini Battaglia trovò il suo zenit nel ruolo che (volente o nolente, chissà) svolse nella fase più cupa di Mani Pulite, quando a trovarsi sul banco degli accusati fu il pool milanese, a partire dal suo ariete Di Pietro. Tre passaggi chiave, e tutti intorno a Chicchi, arrestato a La Spezia per gli appalti ferroviari. Una sua frase intercettata, «si è pagato per uscire da Mani Pulite», fece clamore: il presidente dei penalisti Gaetano Pecorella invitò i pm milanesi a consegnare i loro conti correnti, loro reagirono annunciando querele non al banchiere ma a Pecorella (che ieri dice: «querela mai arrivata»). Altra frase, che insieme a Di Pietro tirava in ballo Giuseppe Lucibello, vecchio amico del pm, scelto da Pacini Battaglia come difensore: «Lucibello e Di Pietro mi hanno sbancato»; dapprima Chicchi disse che aveva detto «sbiancato», poi cambiò linea e «sbancato» voleva dire «rovinato», carriera distrutta. Infine, da un carcere messicano, l'ex cassiere di Craxi Maurizio Raggio parlò in un'intervista di miliardi passati da Pacini Battaglia a Di Pietro e Lucibello: querele, processi, poi saltò fuori che invece i soldi erano andati altrove. Lasciando l'impressione che Chicchi spargesse calunnie con cautela e metodo, senza esporsi troppo, dentro un gioco complicato e oscuro. E sapendo che dietro l'inverosimile, ovvero i soldi a Di Pietro, c'era l'ombra almeno verosimile di una inchiesta fatta a metà, succube di «pentiti» fasulli come Pacini Battaglia. Che, a un certo punto, incredibilmente, viene assunto dal pool come confidente: basta interrogatori, a gestire la «fonte Chicchi» è un maresciallo della squadra di Di Pietro, a lui il banchiere affida le dritte che poi finiscono negli atti dei pm. Quando la cosa salta fuori il procuratore Gerardo D'Ambrosio va su tutte le furie, il maresciallo viene promosso ai servizi segreti, e quando Di Pietro diventa ministro se lo porta con sè. Chicchi, intanto? Una sola condanna, e neanche un giorno di carcere, sconta la pena come bibliotecario al Comune di Bientina: che intanto gli ha comprato la magione di famiglia.

«Continuerà a chiamarsi Villa Pacini Battaglia», garantisce ieri il sindaco. E dove lo trovano, a Bientina, un altro così?

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