
C'è una sinistra in Italia che, in queste ore, festeggia vittorie altrui come se fossero successi propri. Le elezioni in Paesi lontani, come Canada e Australia, vengono interpretate come un primo segnale di riscossa contro l'ondata conservatrice che ha trionfato, un po' ovunque, nelle più recenti consultazioni popolari. In particolare, si legge in questi risultati una rivincita contro l'amministrazione Trump negli Stati Uniti, che, piaccia o meno, sta dettando l'agenda della politica mondiale, canoni comunicativi compresi.
Dietro il mezzo sorriso, poco motivato, di una certa opposizione italiana, riemerge l'attitudine tipica del progressismo nostrano: l'alleanza «contro». Un corredo genetico che accompagna le coalizioni di sinistra fin dagli albori della Seconda Repubblica, e che sembra riproporsi tale e quale anche in questa fase politica. Un approccio antitetico rispetto a quella cultura di governo che dovrebbe invece rappresentare la spina dorsale su cui costruire un'alternativa, fondata su progetti e proposte.
Nella storia degli ultimi trent'anni è stato quasi sempre così: la sinistra, in Italia, quando ha vinto, lo ha fatto annullando le proprie differenze in un odio comune verso qualcuno o qualcosa, mai attraverso la proposta di un progetto condiviso e realisticamente realizzabile di Paese. Se si esclude il nobile tentativo del segretario Veltroni e la sua corsa solitaria del 2008 sconfitta nelle urne le vittorie prodiane del 1996 e del 2006 coincidono con la costruzione di grandi ammucchiate, incapaci di reggere la guida del Paese per via delle loro contraddizioni interne. Anche il «blairismo» in salsa fiorentina di Matteo Renzi, unico leader ad aver vinto almeno una elezione europea con un programma riformista ispirato al New Labour britannico, sembra oggi destinato ad accomodarsi o meglio, ad accodarsi a un'alleanza con cui condivide poco o nulla, se non l'antagonismo verso la premier Meloni e il presidente Trump, oltreoceano.
Sono numerosi e concordanti gli indizi che la storia, anche stavolta, stia per ripetersi identica a se stessa. Partiamo dall'ultimo, da ciò che accadrà nei primi giorni di giugno, quando gli italiani saranno chiamati a votare per un referendum sul diritto del lavoro tema centrale per una coalizione laburista. In particolare, la nuova dirigenza del Partito democratico (nella foto, il segretario Elly Schlein), il Movimento Cinque Stelle, la sinistra radicale e i Verdi chiederanno agli elettori di abrogare il Jobs Act, approvato da un governo guidato proprio dall'allora segretario democratico Renzi.
E allora viene da chiedersi: come possono convivere, all'interno dello stesso progetto, il segretario della Cgil Landini, l'«obamiano» Renzi e i figli repubblicani del movimento «Giustizia e Libertà» guidati da Calenda?
Semplice: esattamente come stavano insieme Bertinotti, Diliberto e Mastella figli degli opposti della Prima Repubblica uniti nella Seconda contro il centrodestra berlusconiano. Tanto basta per provare a vincere; poco importa se poi sarà impossibile governare, come la storia insegna. Ho citato il referendum sul lavoro perché rappresenta il più clamoroso dei cortocircuiti, quasi una resa dei conti anticipata nella nascente coalizione alternativa alle destre. E ciò che divide la sinistra è molto di più, e assai più profondo. L'alleanza che vorrebbe proporsi come alternativa da qui a due anni è attraversata da visioni talmente diverse e antitetiche da rendere impossibile qualsiasi sintesi, anche al ribasso.
L'Europa deve riarmarsi, come sostengono i progressisti «macroniani» e il nuovo governo laburista inglese, così da essere più autonoma dall'alleato americano? Oppure deve addirittura smettere di fornire armi all'Ucraina, come chiedono grillini e sinistre italiane? A Bruxelles devono essere radicalmente riviste le politiche ambientali, che stanno penalizzando l'industria europea come ha scritto la scorsa settimana il Blair Institute oppure la transizione verde va addirittura accelerata, come vorrebbe il partito «Verdi-Sinistra», inedito contenitore di estremismi mescolati?
Anche sui più sacri equilibri tra poteri democratici, le visioni sono talmente distanti da rendere assurdo persino il tentativo di ricondurle a un disegno unitario. Basti pensare ai palchi giustizialisti di Conte e compagni, alle loro campagne di delegittimazione dei renziani e dei loro presunti scandali, e al contempo rileggere qualche vecchio libro dell'ex sindaco di Firenze per percepire l'insopportabile stridore di unghie sul vetro.
Eppure, nonostante le differenze irriducibili, le celebrazioni di queste ore ci dicono che ci proveranno ancora.
Se Canada e Australia valgono come segnali di riscossa anti-Trump, a prescindere dai temi reali su cui gli elettori si sono espressi, allora anche il grande pentolone italiano può valere come ricetta anti-centrodestra. Poco importa se gli ingredienti, messi insieme solo per fare volume, risultano indigesti. L'importante è vincere. Governare, da trent'anni, non sembra essere un tema che riguardi davvero la sinistra.
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