Politica internazionale

Il diplomatico Massolo: "Debito comune per la Difesa europea. Con Mosca serve anche la deterrenza"

L'ambasciatore: "Chiunque sarà il nuovo presidente Usa, l’Europa dovrà fare i conti con le minacce del presente"

"Debito comune per la Difesa europea. Con Mosca serve anche la deterrenza". Intervista al diplomatico Giampiero Massolo Esclusiva

Ambasciatore Giampiero Massolo, alcuni giorni fa lei si è recato negli Stati Uniti per ritirare l'ambita medaglia della Foreign Policy Association di cui è stato insignito per gli straordinari risultati raggiunti sul fronte diplomatico. Quale clima ha trovato ora che Trump è diventato ufficialmente l'avversario di Biden?

«I due candidati riflettono una realtà americana profondamente divisa, con due opposte visioni sul futuro del Paese, dove si è innestata una corsa alla reciproca delegittimazione del tutto nuova. E uno dei paradossi è che Biden non riesce a far percepire come suo successo il miglioramento dell'economia. D'altra parte Trump ha fondato la sua campagna elettorale sul senso di disillusione verso l'establishment che prova una fetta rilevante dell'elettorato, puntando tutto sulla quella che in Italia chiamiamo demagogia».

Ciò significa che la vittoria di Trump non è così scontata come in alcuni ambienti si pensa?

«Troppo presto per fare scommesse, mancano otto mesi al voto e possono accadere molte cose. E se è vero che per Biden, nonostante il vigoroso e apprezzato discorso sullo Stato dell'Unione, l'esposizione pubblica di alcune istantanee ne ha evidenziato le debolezze dell'età, la strada non è in discesa nemmeno per Trump. Perché non è ancora certo che ottenga il voto delle frange fluttuanti del partito repubblicano, quelle per intenderci che avevano appoggiato Nikki Haley fino all'ultimo».

Perché la maggior parte delle cancellerie europee teme una vittoria di Trump?

«In verità chiunque sarà il nuovo presidente, l'Europa sarà chiamata ad assumersi maggiori responsabilità. Non basterà contribuire alla spesa militare, ma almeno nel nostro estero-vicino bisognerà assicurare una ragionevole deterrenza. Con una differenza fondamentale, che è alla base dei timori: con una presidenza democratica, tutto ciò avverrebbe in un quadro collaborativo; con Trump il quadro sarebbe invece competitivo, in quanto egli instaurerebbe subito rapporti bilaterali con singoli Paesi europei, piuttosto che considerare l'Europa nel suo insieme. Trump non è un isolazionista, ma un unilateralista, che sfrutta i rapporti di forza. La prima sfida dell'Europa sarebbe dunque quella di dare prova di compattezza».

Quanto pesa sulla bilancia elettorale la posizione di Biden rispetto alla guerra in Medioriente?

«Non poco. Può far perdere consensi fra i giovani, soprattutto nelle fasce più istruite e moderate che lo avevano appoggiato in precedenza. Viene mal tollerata la troppa vicinanza al governo israeliano che oggi è percepito come eccessivo nella reazione, pur nella legittimità della risposta al vile atto terroristico del 7 ottobre. Sicché l'atteggiamento di Biden viene letto come troppo indulgente verso Israele, e questo non piace».

Anche in Europa, a giugno, si andrà al voto. Quale che sia l'esito, è ipotizzabile un bilancio dell'Unione concentrato su temi militari e della sicurezza energetica. Alla luce dei nuovi scenari, il Green Deal, per come l'abbiamo conosciuto, può dirsi archiviato?

«Il tema della sicurezza è particolarmente sentito nell'elettorato europeo, che è sconcertato dalla sequenza ravvicinata di guerre che credeva superate. Non capisce come si sia passati dall'epoca della collaborazione a quella della contrapposizione, mentre percepisce la guerra sempre più vicina e si domanda quando finirà tutto questo. A ciò, soprattutto in Italia, si aggiunge l'incertezza sulla vicenda migratoria, vissuta tuttora come irrisolta, nonostante i passi avanti compiuti anche grazie al governo Meloni, che è riuscito a trasformarla in un tema europeo».

Come verrà calato tutto ciò nel nuovo bilancio dell'Unione?

«Il nuovo bilancio non potrà non riflettere le opportunità e le minacce del presente. È indubbio che il budget comunitario dovrà prevedere una quota di spesa comune per la sicurezza in generale, in linea con il documento sull'industria europea presentato dalla Commissione a inizio marzo. La parte più importante della spesa militare resterà comunque a carico dei bilanci nazionali, semmai lo sforzo sarà di razionalizzare le commesse, per evitare sovrapposizioni. Sarebbe importante se fosse previsto, come si fece con il Covid, un debito comune per finanziare la spese sulla sicurezza, ma credo che i tempi non siano maturi».

Risorse per tutto è difficile trovarne. È quindi possibile che la transizione green segni il passo?

«Non credo sia possibile accantonarla, ma perseguirne gli obbiettivi con un approccio meno estremo e con una gestione complementare delle varie fonti, questo sì: non solo rinnovabili dunque, ma anche il nuovo nucleare. Fondamentale sarà coinvolgere le aziende, ma sulla base della reciprocità di interessi, evitando di far percepire la transizione solo come un dogma che va applicato. Bisogna portare avanti politiche di sostenibilità attraverso un sistema misto di finanziamenti, pubblico-privati, basati appunto sul principio della cointeressenza».

Mentre noi parliamo dei grandi appuntamenti elettorali in Occidente, ancora non si intravede soluzione per la guerra in Ucraina né per Gaza. Papa Francesco ha ritenuto di fare una sintesi sulla quale c'è tuttora grande dibattito. Ha definito quella che si combatte a Gaza una guerra tra due irresponsabili e sull'Ucraina ha suggerito a Kiev di alzare bandiera bianca e negoziare la pace con Mosca. Il suo pensiero?

«Il mondo purtroppo non è quello che vorremmo ma è quello che è, e in questo mondo il Papa dà voce all'aspirazione di tutti, cioè stop alle armi e pace duratura. Bene ha chiarito il cardinale Pietro Parolin il sottostante di questo traguardo aspirazionale, traducendolo nelle forme della realtà. È chiaro che il tentativo verso la pace, e qui penso all'Ucraina, può esserci se l'aggressore smette di aggredire; ma se questi non si ferma è nostro dovere aiutare l'aggredito a costruire le migliori condizioni perché si possa avviare il negoziato da posizioni non deboli».

D'accordo, ma che cosa suggerirebbe per chiudere il più rapidamente possibile il conflitto in Ucraina?

«Intanto va chiarito che la sola pace che funziona è quella raggiunta dai due contendenti, nessuno meglio di loro può venirne a capo. Ma perché i due si possano sedere al tavolo, l'aggressore si deve fermare e l'altro deve dire a quali condizioni è possibile prendere in considerazione un accomodamento. Non vedo altra via».

E sul fronte mediorientale?

«Il trauma è stato fortissimo, un'aggressione senza pari nella storia recente, alla quale Israele ha risposto in maniera legittima, avendo come obiettivo di decapitare Hamas e quindi di eliminare la minaccia proveniente da Gaza. Ma il prolungarsi del conflitto e le modalità massive con cui Israele sta rispondendo stanno avendo un effetto boomerang sul governo Netanyahu, fortemente criticato dalla comunità internazionale. Il problema è che non corrispondono le due agende. Israele dice: decapitiamo Hamas, mettiamo in sicurezza Gaza e quindi pensiamo agli ostaggi. La comunità internazionale risponde: no, prima pensiamo agli ostaggi e ai soccorsi umanitari, poi al futuro di Gaza. Ma per pensare al dopo dobbiamo mettere in condizione i paesi arabi moderati di poter partecipare a questo dopo».

D'altra parte bisogna fare i conti con il gioco fortemente ambiguo di Hamas, che da un lato afferma di volere la tregua, dall'altro la sua ala militante continua a rifiutare ogni compromesso.

«La comunità internazionale sta cercando di interrompere il circolo vizioso mediando per ottenere dei cessate il fuoco prolungato e uno scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi. Ove la tregua tenesse abbastanza a lungo, un'eventuale ripresa delle ostilità sarebbe per forza di cose meno massiva e più mirata. È questo lo sforzo diplomatico in atto».

Lei è presidente di Mundys, la società nata esattamente un anno fa nella quale Alessandro Benetton anche a nome della famiglia ha voluto riunire le principali attività del gruppo. Possiamo tracciare un primo bilancio?

«Non sembri una frase fatta, ma è stato davvero un anno vissuto intensamente. È stato cambiato gran parte del management, con Andrea Mangoni abbiamo un nuovo capo azienda di grande esperienza. Abbiamo consolidato i rapporti con Acs, il nostro socio di riferimento in Abertis, rilanciandone gli investimenti e acquisendo nuove concessioni autostradali in Portorico, in Texas, anche in Spagna. Abbiamo dato una scossa di mercato a società come Telepass e Yunex Traffic, affinando le attività di decongestionamento del traffico e della mobilità intelligente. E per il settimo anno consecutivo abbiamo ottenuto il riconoscimento di Fiumicino come miglior aeroporto d'Europa.

Con la forza di un azionariato autorevole e stabile, rappresentato da Edizione, insieme a Blackstone e Crt, non temiamo le sfide del futuro».

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