«Solo in casi eccezionali un Paese dell'Ue può chiedere una revisione del Piano nazionale di ripresa e resilienza». Un portavoce della Commissione Ue ieri si è affrettato a far sapere al governo italiano che cambiare le carte in tavola del Pnrr è una procedura complessa. Per quanto il ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini, abbia palesemente confermato che la strategic review è più di un'ipotesi visto che l'inflazione ha fatto esplodere i costi delle costruzioni, passare dalle parole ai fatti sarà tutt'altro che semplice.
«Lo Stato deve dimostrare che non può più attuare il Piano o parte di esso a causa di circostanze oggettive», spiegano a Bruxelles, sottolineando che a una simile richiesta seguirebbe «una rigorosa valutazione». Se quest'ultima avesse esito positivo, in quel caso la Commissione proporrebbe una nuova bozza di decisione attuativa che dovrebbe essere successivamente adottata dallo stesso Consiglio europeo». Insomma, l'iter è lungo e ritarderebbe non solo l'execution del Piano stesso ma, si legge tra le righe, anche l'erogazione stessa dei prestiti e dei finanziamenti a fondo perduto. Vi sarebbe un percorso alternativo. Il differenziale tra costi previsti e spese finali può essere colmato con una nuova richiesta di prestiti purché «in una misura inferiore al 6,8% del reddito nazionale lordo». Per l'Italia si tratterebbe di 12,2 miliardi di euro all'incirca, poco più della metà dell'impatto massimo dell'inflazione sulle infrastrutture previste dal Pnrr (20 miliardi), una cifra recuperabile anche spostando fondi europei da altri programmi al Piano nazionale.
Questa ipotesi, tuttavia, è poco praticabile giacché il Pnrr impegna anche risorse comunitarie «tradizionali» e ulteriori trasferimenti scoprirebbero i fondi di coesione, il settore agricolo, quello delle politiche per il lavoro (ad esempio la nuova Garanzia di occupabilità dei lavoratori è finanziata con le risorse di React Eu). Il Paese membro, infine, può colmare il gap» tra finanziamenti e costi previsti «con fondi nazionali». In questo caso, anziché indebitarsi con l'Europa o ridimensionare altri progetti di sviluppo, ci si indebita con il mercato rischiando l'applicazione di tassi di interesse più elevati. Eppure, il governo proprio su questo fronte sta intervenendo in attesa di una decisione definitiva. In un'intervista al Corriere il ministro Giovannini ha spiegato che il decreto Sostegni ter «prevede un meccanismo di aggiustamento dei prezzi in corso d'opera molto meno penalizzante per le imprese». Si abbasserà la franchigia del 10% sui rincari e la quota eccedente sarà rimborsata in misura più sostenuta rispetto all'attuale 50 per cento. Inoltre, i bandi terranno conto di una ricognizione Istat sui prezzi dei materiali da sottoporre alla Conferenza delle Regioni per i prezziari regionali.
La china su cui ci si incammina, tuttavia, è molto scoscesa. Dopo il richiamo del vicepresidente della Commissione Ue, Valdis Dombrovskis, sull'eccesso di spesa pubblica italiana, ieri è stata la volta del commissario al Bilancio, l'austriaco Johannes Hahn.
Quest'ultimo non solo ha chiesto al nostro Paese «continuità» delle politiche (cioè del governo), ma ha anche ammonito sulle proposte di riforma del Patto di Stabilità invitando a evitare «classificazioni discrezionali» del debito. L'esatto contrario di quanto adombrato da Francia e Italia, ossia l'esclusione delle spese anti-crisi e di quelle per investimenti green dal computo di Bruxelles. La partita sarà molto dura.
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