I candidati, ormai, non si dividono tra destra e sinistra, ma tra chi rappresenta il sistema e chi vi si oppone. La vittoria di Mamdani a New York ne è la dimostrazione e apre il sipario sul conflitto interno al Partito Democratico: da un lato l'ala moderata e istituzionale, dall'altro quella socialista e movimentista. Il classico conflitto delle sinistre. La vittoria di Mamdani è stata, soprattutto, la sconfitta dell'élite che ha governato New York per decenni, non tanto della destra come spesso ci si affanni a raccontare da questo lato dell'oceano. Le sue proposte, in buona parte irrealizzabili, hanno comunque il merito di aver tracciato un'identità chiara. Il suo messaggio è stato lineare, parlando ai giovani e alla classe media stanca, a chi guarda al costo delle uova per arrivare alla fine del mese o, da immigrato, teme che proprio nuovi immigrati possano portare via il lavoro.
Vincere a New York, per i Democratici, era scontato. Il problema non è questo collegio, ma quelli che devono riconquistare per tornare alla Casa Bianca. Se la vittoria di Mamdani non impone una virata a sinistra, quella della moderata Spanberger in Virginia non la impone al centro. Il dibattito è vivo, e se l'unica regola è che vinca prima di tutto chi esprime un'identità chiara, dentro al Partito Democratico è già guerra aperta per la convention del 2028. Da un lato l'ala moderata di Gavin Newsom, Kamala Harris o Josh Shapiro, dall'altro quella socialista di Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez, rafforzata dal successo di Mamdani. Una candidatura di quest'area, fino a ieri impensabile, oggi è resa possibile proprio dall'esempio di New York, spolverata magari dal potere ancora inesplorato della Gen-Z. Mamdani, Ocasio-Cortez e Sanders non sono legati da una collocazione di sinistra in senso novecentesco, ma da una sfida al modello stesso di partito e di politica in cui pure vivono.
Nel ventesimo secolo lo spartiacque dei sistemi politici occidentali correva lungo l'asse sinistra/destra. Nel ventunesimo corre tra sistemi economici aperti e chiusi, tra essere sistema o antisistema. Così, in Europa, Macron ha passato una carriera a evocare Obama e Trudeau, mentre Marine Le Pen si mostrava con il suo racconto identitario simile anche plasticamente a Trump o Farage. Jean-Luc Mélenchon, dalla sinistra dell'Eliseo, ricorda anche iconicamente Bernie Sanders, mentre i loro messaggi ritornano prepotenti nei comizi di Tsipras ad Atene o dei Cinque Stelle in Italia. Gli slogan, curiosamente ma non troppo, sono molto simili al "tutto gratis" di Mamdani: pagano i ricchi, alla peggio pantalone. Cioè tutti.
I sistemi del secolo scorso stanno scomparendo, ovunque in Occidente e con tempistiche simili tra loro. Resiste una differenza tra Europa e America: al di là dell'Atlantico ci sono due partiti che inglobano insieme ali moderate e radicali; in Europa le forze politiche si moltiplicano in partiti distinti. Ma la tendenza è identica: le ali crescono, i centri tra destra e sinistra faticano, spesso eredi dei partiti di governo storici.
In America, le ali rischiano di spezzare i partiti: sta succedendo ora ai Democratici, è già successo di fatto tra i Repubblicani, travolti dal MAGA di Trump. E fu proprio Trump il primo a capirlo: candidato già nel 2016 antisistema pur dentro al sistema che ha conquistato.
Non è un caso che gli elettori di entrambe le estremità spesso si somiglino:
dimenticati, poveri, delusi e arrabbiati. Chi deve fare i conti con il costo delle uova o teme di perdere il lavoro, capace di votare magari Zohran Mamdani al City Council di New York e, insieme, Donald Trump alla Casa Bianca.