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Conte fa il trumpiano. E Donald lo ringrazia: "È un bravo ragazzo"

Strappa l'invito alla Casa Bianca (non la data). E smentisce: su Mosca nessun passo indietro

Conte fa il trumpiano. E Donald lo ringrazia: "È un bravo ragazzo"

Sarà pure fortuna del principiante, ma il nuovo corso italiano ha trovato un (interessato) estimatore a Washington. Se per qualche anno ci siamo dovuti sorbire il renziano «vecchio amico» Obama, the big brother Barak, d'ora in avanti anche l'avvocato degli italiani Giuseppe Conte ha chi lo accoglie con una pacca sulle spalle nello studio ovale. D'altronde questa era forse la prima mission (non) impossible affidata al premier gialloverde: trovare la sponda del nostro «principale alleato» (come aveva detto nel discorso alla Camera): Donald Trump. E se corteggiamento doveva essere, corteggiamento è stato: visibile, forse azzardato, ma riuscito: tanto nelle posizioni sulla Russia come quelle sui dazi. Così in favore di telecamere ieri Conte annunciava per primo un accordo tra i leader G7 per rivedere «il sistema del commercio internazionale Wto, un po' datato». E, con linguaggio che avrebbe mandato in brodo di giuggiole The Donald (tanto da spingere Trump all'elogio pubblico via twitter: «really a great guy», veramente un ragazzo eccezionale), definiva «invasiva» la politica commerciale della Cina (lo aveva detto Trump poco prima). Poi, al termine dei lavori canadesi, Conte decideva di vestire anche i panni del pompiere. Acqua sul fuoco sia sui rapporti con i leader internazionali («Mantenere buone relazioni con gli Usa e andare in conflitto con i partner europei è una paura che possiamo accantonare») sia sulle preoccupazioni per la tenuta dei conti pubblici italiani («Abbiamo parlato con Christine Lagarde e non c'è alcun motivo di preoccupazione»). E nessuna tensione nemmeno con i vicepremier Di Maio e Salvini: «C'è piena sintonia, ma io mi assumo la piena responsabilità di guidare questo governo e indirizzarne la politica».

Il presidente Usa l'altra sera non finiva di congratularsi con Conte per la vittoria elettorale, incoronando proprio lui, «my big friend Giuseppi» come «real winner» delle urne. Lui che neppure era candidato. Trump non va troppo per il sottile, si sa, però dopo il vertice dell'altra sera s'era appartato col premier italiano in una camera della tenuta Mansoir Richelieu, subito dopo una cena collettiva nella quale entrambi s'erano dati manforte sul rientro di Putin tra i Grandi, perché «avere una Russia isolata non conviene a nessuno, riaverla al tavolo interesse di tutti». «Giuseppi ha ragione al 100%», era intervenuto più volte Trump, sostenendo pure che l'intervento di Putin in Crimea fosse stato «tutta colpa» dagli errori di Obama nella gestione dei rapporti con Mosca. «Con la Russia saremmo più forti», aveva concluso, suscitando reazioni risentite della Merkel, di Macron e della May, convinti che Putin «non possa fare come gli pare». Più tardi, The Donald aveva preteso ancora che Giuseppi gli sedesse accanto durante lo spettacolo del Cirque du Soleil, invitandolo infine alla Casa Bianca. «Faccia a faccia molto cordiale, organizzeremo l'incontro appena troveremo una data in comune», era il resoconto di Giuseppi, entusiasta per l'indubbio successo che veniva dopo le accuse di aver rettificato il tiro sulla Russia. «Nessun passo indietro, la nostra posizione è stata portata avanti convintamente. Abbiamo detto con forza qual è la posizione dell'Italia: la Russia deve entrare nel G8 ma serve un percorso improntato al buonsenso». Quindi anche un tweet «volutamente forte» con il quale Conte aveva fatto sua la posizione Usa, mirava ad aprire un confronto. «L'Italia vuole il dialogo, il meccanismo delle sanzioni c'è e noi lavoriamo perché sia rimosso. Resta l'auspicio che ci possa essere quanto prima un G8 con la Russia».

Posizione che, se attirava le aspre critiche dell'ex premier Gentiloni («Pericolosissima la fascinazione per Putin, significa andare in cerca di guai»), era invece considerata da un altro predecessore, Lamberto Dini, «nient'affatto una novità: anzi, in linea con la tradizione della nostra politica estera».

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