Il pressing mondiale e la resistenza di Bibi

Il premier israeliano non cede e aspetta la "sorpresa" militare che può accelerare una svolta

Il pressing mondiale e la resistenza di Bibi
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Dopo essersi trincerato dietro un «no» all'interruzione della guerra risuonato nel mondo intero insieme alla decisa contrapposizione a un futuro stato palestinese a Gaza, adesso le cose sembrano muoversi. La pressione è forte, la battaglia a Gaza infuria. Benjamin Netanyahu, dopo una telefonata con Joe Biden e una complicata proposta in tre fasi e 90 giorni, riportata dal Wall Street Journal, parlando delle pressioni internazionali verso un'interruzione del conflitto e la previsione del futuro di Gaza in mano dell'Autorità Palestinese, aveva dichiarato seccamente: «Continuiamo la guerra su tutti i fronti e i settori, non daremo immunità ai terroristi, chi ci mette in pericolo sarà in pericolo e mentre lavoro 24 ore al giorno al ritorno dei rapiti, ribadisco la mia decisione per la capitolazione di Hamas. Non c'è sostituto per la vittoria e ho ripetuto al presidente Biden che quando avremo ottenuto la vittoria non ci sarà al posto di Hamas al governo un'entità che finanza il terrorismo, educa al terrorismo e ci manda terroristi». Insomma un'allusione alla politica dell'AP di stipendiare i terroristi, di aver mancato la condanna del 7 ottobre, di usare le scuole per incitare contro Israele, di avere un'opinione pubblica che sostiene Hamas all'80%.

Ma per Biden, con cui comunque Bibi ha concordato un aumento degli aiuti umanitari, e anche per l'Unione Europea, che si è risentita ieri in toni ultimativi e stranamente intrusivi (Borrell ha detto «Se non c'è accordo, la comunità internazionale dovrà imporlo»; e i ministri degli esteri dell'Ue riuniti hanno dichiarato che uno Stato Palestinese è una necessità cui Israele deve piegarsi), le questioni legate a Israele sono due: una è la guerra, con i tunnel, il gran numero di feriti e uccisi, il terrorismo genocida di Sinwar dietro lo scudo umano della sua popolazione, e l'altra è Netanyahu, che è sempre di per sé un oggetto di particolare attenzione, di biasimo e impazienza internazionale. La sua lunga permanenza al potere, la responsabilità istituzionale enorme dal giorno stesso della tragedia, il fatto che al suo governo sia associato un partitino di estrema destra religiosa, è diventato il comma di una critica a una guerra lenta. Il movimento che gli chiede di accettare qualsiasi accordo pur di riavere i 132 a casa è spesso anche politico. A questo, va sommato il fatto che di Israele ogni istituzione internazionale, l'Onu, l'Ue, fa un suo specifico obiettivo, e spesso applica criteri sbrigativi anche in situazioni difficili come questa.

Ieri Netanyahu, dopo giornate anche di disperazione furiosa delle famiglie che hanno assediato la sua casa e anche interrotto urlando una riunione della commissione finanze della Knesset, ha parlato in maniera misteriosa ma significativa di un'iniziativa per i rapiti di Israele che cancellerebbe quelle che lui ritiene le proposte bugiarde e irrilevanti di Hamas. In che cosa consiste? Non possiamo saperlo, ma da quello che accade in queste ore si capisce che si tratta della strategia rischiosa ma possibile che nella zona di Khan Yunis ha rafforzato l'esercito con tre divisioni in movimento, una cinquantina di armati di Hamas uccisi in battaglia, la continua scoperta con relative analisi dei reperti di chilometri di gallerie nel cuore dell'area dove Sinwar regna. L'ipotesi che circola è che Hamas è più debole, spara meno missili, Ismail Hanije da Doha non ha più contatto con Sinwar il suo generale. Questo, si può pensare, deve condurre a sorprese sia militari e forse a eventuali accordi. Se così fosse, Netanyahu, che ha messo tutta la sua forza nel dimostrare che la guerra si può vincere ritrovando gli ostaggi, si vedrebbe rafforzato strategicamente. Oggi le rotture politiche sono contenute a stento: per esempio Gabi Eisenkot, che ha perso un figlio in guerra, ex capo di stato maggiore, è come Benny Gantz un antagonista politico.

D'altra parte però come tutta Israele, senza destra né sinistra, non accetterebbe di fermare la guerra se non con garanti e intervalli molto circostanziati. La guerra è di sopravvivenza per tutti; la questione dell'Autonomia Palestinese, è lontana da venire.

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