
Ogni tanto, nel nostro Paese, riaffiora un "giudice a Berlino". Questa volta lo si è intravisto nella pronuncia del Tribunale del Riesame di Milano che, con parole di straordinaria nettezza, ha demolito l'impianto accusatorio costruito dalla procura milanese. Un impianto che, sulla base di intercettazioni parziali e di frammenti di conversazioni estrapolate da chat, ha tenuto agli arresti domiciliari, o addirittura in carcere, i protagonisti di quello che era stato definito un "sistema corrotto" dietro lo skyline del capoluogo lombardo.
I giudici hanno bollato come "svilenti" le tesi dei pubblici ministeri, smascherando la fragilità di un castello di carte costruito su suggestioni moralistiche e interpretazioni maliziose: ogni contratto ridotto a presunta tangente, ogni opinione a indebita pressione, ogni attività economica a sordida tresca.
La vicenda è lungi dall'essere conclusa. Altri ricorsi e nuove pronunce attendono di delineare il quadro definitivo. Ma già ora appare evidente un primo dato: la magistratura, almeno in questa circostanza, ha dimostrato la capacità di correggere se stessa. Ciò che invece rimane silente e immobile è la politica. E lo spettacolo che essa offre è, ancora una volta, deprimente: un atteggiamento autolesionista che mina la credibilità delle istituzioni e produce effetti distruttivi sull'economia reale.
Sorprende che la politica, in particolare quella che governa Milano da oltre quindici anni, non abbia avuto il coraggio di pronunciare parole analoghe a quelle del Riesame: riconoscere cioè che le politiche urbanistiche che hanno mutato il volto della città trasformandola in una delle capitali europee più dinamiche e moderne erano legittime, e che dietro quelle scelte non si celava il verminaio che una parte della stampa, spesso complice delle tesi accusatorie, aveva insinuato. Al contrario, la politica meneghina è stata più rapida della stessa giustizia nel trarre conseguenze: nel sacrificare un assessore, nel recitare un pentimento che precedeva persino l'individuazione del "peccato", nell'invocare a gran voce l'esigenza di un cambiamento sistemico.
Nelle ore più concitate, solo una voce si è levata a difesa del percorso intrapreso da Milano: quella di Roberto Vecchioni. Con l'autorevolezza dei suoi ottant'anni, il professore-musicista, parlando da Portofino luogo forse inviso ai giacobini di ogni stagione ha saputo ricordare una verità elementare: aiutare le periferie non può voler dire punire chi è riuscito ad andare avanti, facendo di Milano un polo di attrazione economica e turistica. Nelle sue parole si è colta la differenza tra equità sociale e quella revance che troppo spesso viene cavalcata da una politica smaniosa di consensi effimeri e pronta a brandire le carte bollate come arma di lotta.
Da questa vicenda, la politica avrebbe dovuto trarre almeno una lezione. Negli ultimi quindici anni, inseguendo gli umori di piazze rancorose e i moralismi del Savonarola di turno, il Parlamento ha approvato una legislazione ambigua, che concede al magistrato più zelante il potere di trasformare scelte opinabili ma legittime in sospetti di corruzione, decisioni politiche discutibili ma legali in sistemi opachi, normali contratti e contatti in sordidi intrecci di interessi.
Se la magistratura, come nel caso milanese, ha avuto la forza di emendare se stessa, ora è la politica a dover dimostrare altrettanto coraggio.
Perché se il Parlamento non saprà correggere la deriva giustizialista che esso stesso ha alimentato, allora sarà chiaro che questo Paese non ha bisogno soltanto di una riforma della giustizia: ha bisogno, prima ancora, di una riforma della politica.