Lo si era intuito già domenica. L'uccisione in un attentato di Darya Dugina, figlia di quell'Aleksander Dugin ideologo e teorizzatore dell'Eurasia, non sarà privo di conseguenze. E il primo a farlo capire spiegando che non vi è, nè vi sarà a breve termine, spazio per un negoziato in grado di portare al cessate il fuoco è stato ieri l'ambasciatore della Russia presso le Nazioni Unite di Ginevra Gennady Gatilov. «In questo momento - ha dichiarato il diplomatico - non vedo possibilità di contatti diplomatici. Più il conflitto si prolunga più sarà difficile trovare una soluzione negoziata». L'assassinio di Darya Dugina, definito ieri dal presidente Vladimir Putin «un crimine vile e crudele che ha spezzato la vita di una persona brillante e di talento» diventa dunque il naturale additivo capace di stringere ancor più l'opinione pubblica russa intorno al Cremlino e giustificare un offensiva destinata a spingersi ben aldilà dei territori del Donbass.
Tra le righe del tempestivo annuncio con cui l'intelligence russa (Fsb) accusa una donna ucraina sospettata di legami con i servizi segreti di Kiev si legge l'implicita condanna dei vertici ucraini di puntare non solo alla difesa del proprio territorio, ma alla destabilizzazione della Federazione e all'indebolimento dei suoi vertici. Il tutto con l'esplicito sostegno degli alleati della Nato. Un'assunzione indispensabile per far capire che la conquista dei territori del Donbass non basterà, da sola, a disarticolare l'apparato militare ucraino e a far cessare quelle infiltrazioni in Crimea e sui territori russi rese evidenti dall'assassinio della Dugina alle porte di Mosca. E di una svolta sostanziale capace non solo di vendicare l'assassinio della figlia, ma anche di garantire un vittoria «totale» ha parlato ieri Aleksander Dugin. «I nostri cuori bramano qualcosa di più della semplice vendetta o punizione. Abbiamo solo bisogno della nostra Vittoria. Mia figlia ha deposto la sua vita da vergine sul suo altare. Quindi vinci, per favore!», ha detto l'ideologo in un intervento suonato come un'invettiva allo stesso Putin.
Dunque poco importa se lo spostamento di numerosi reparti sul fronte di Kherson per arrestare le pressioni ucraine ha rallentato l'avanzata nella regione del Donetsk. Proprio il rafforzamento delle linee meridionali e i bombardamenti di ieri su Odessa con missili Kalibr e su Nikopol, sempre nel sud, fanno capire come la mossa successiva alla programmata conquista del Donetsk potrebbe non essere più il tanto auspicato negoziato, ma l'offensiva su Odessa. La conquista del porto e la chiusura di tutti gli sbocchi al mare era già prevista dal piano presentato a Putin dagli ucraini filo-russi dopo la caduta, nel 2014, del presidente Viktor Yanukovych. Già allora la presa di Odessa e delle coste veniva definita cruciale per paralizzare l'economia di Kiev. Oggi le conseguenze sarebbero ben peggiori. Per il Cremlino conquistare Odessa significherebbe non solo decretare la vittoria finale, ma anche condannare all'impotenza Kiev trasformandola in uno stato residuale condannato a vivere, per i prossimi 30 anni, con i sussidi e gli aiuti dell'Unione Europea e degli Stati Uniti. Una prospettiva non certo incoraggiante per gli stati europei che da ottobre in poi dovranno fare i conti con un taglio delle forniture del gas e con l'accentuarsi dell'offensiva militare. La doppia offensiva, energetica e militare, è sicuramente quella su cui punta il Cremlino per spingere non solo l'Ucraina, ma anche l'Europa al «punto di rottura».
Un obbiettivo paventato anche da fonti dell'Unione Europea citate ieri in un servizio della Cnn. Secondo quelle fonti le tensioni, già evidenti, tra il fronte della trattativa con Mosca, guidato da Francia e Germania, e quello più decisamente interventista rappresentato dai paesi dell'Est e da quelli Baltici potrebbero raggiungere il «punto di rottura» già a fine ottobre qualora la riduzione delle forniture di gas russe fossero accompagnate da un parziale disimpegno dell'Amministrazione Biden distratta dal voto di «mid term». Ovviamente anche per Mosca le conseguenze di una rinnovata offensiva militare non sarebbero irrilevanti. Rilanciare su Odessa significherebbe dover richiamare i riservisti e incrementare una mobilitazione nazionale tenuta fin qui al minimo per non trasmettere all'opinione pubblica la sensazione di vivere in una condizione di guerra.
Ma gli attacchi sul territorio nazionale, e il generalizzato sospetto che dietro di essi vi sia la mano della Nato, minacciano di trasformarsi nell'occasione migliore per rompere gli indugi, abbandonare le limitazione dell'Operazione Speciale e compiere il grande salto nella guerra totale. Con il rischio, non indifferente, che la strada per Odessa non segni la «debacle» dell'Ucraina e della Nato, ma diventi la scorciatoia per uno scontro «diretto» dalle drammatiche e incalcolabili conseguenze.
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