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Quando il "giullare" disse sì all'odio contro Calabresi

Fo firmò il manifestò che sancì la condanna a morte del commissario. Per 20 anni lo ha sempre rivendicato

Quando il "giullare" disse sì all'odio contro Calabresi

Le parole, tutte le parole, hanno un loro peso. E devono essere collocate sulla bilancia della storia. Scrive Leonardo Marino, il killer del commissario Luigi Calabresi: «Il nostro compito era di uccidere Calabresi per vendicare la morte del compagno anarchico Giuseppe Pinelli che tutti gli intellettuali italiani, a cominciare da Dario Fo e dai più famosi giornalisti, definivano vittima di Calabresi, gettato dalla finestra di Calabresi». L' autobiografia di Marino, l'operaio di Lotta continua chiamato a far parte del commando di morte, non ha avuto grande fortuna. E quella citazione è solo una goccia nel diluvio delle celebrazioni che stanno accompagnando la dipartita del premio Nobel. Ma riconoscere il talento non vuol dire annegare nella retorica lacrimevole le responsabilità e gli errori commessi.

E però quella frase di Marino la dice lunga sul clima che si respirava all'inizio degli anni settanta in Italia. La bussola della cultura era impazzita e segnava solo una direzione: contro lo Stato, contro la polizia, contro chi faceva il proprio dovere cercando di fermare la follia estremista. Il 12 dicembre 1969 c'era stata piazza Fontana e nelle ore successive Pinelli fu fermato e interrogato. Poi, dopo ore e ore, precipitò dalla finestra della questura. Probabilmente fu tenuto lì, in quelle stanze, oltre i termine di legge, ma il Paese era sconvolto. E un magistrato progressista, Gerardo D' Ambrosio, scagionò completamente il mostro che era solo un uomo in divisa.

Non importa. Calabresi diventò per tutti l'assassino del povero Pinelli e fu bersagliato da un linciaggio senza fine. Dario Fo, anche se può sembrare sconveniente parlarne oggi, ci mise del suo. E Marino cita proprio lui per raccontare il mare in cui nuotava l'odio incontenibile di Lotta continua. Intendiamoci, il celeberrimo manifesto che buttava la croce addosso al Povero poliziotto, lasciato solo da uno Stato pavido e sbrindellato, fu firmato non da qualche esaltato che sognava o scimmiottava la Rivoluzione in salsa italiana, ma da una sterminata legione di padri della patria, intellettuali, giornalisti, storici, accademici. Senza avere alcun elemento in mano, senza prove e nemmeno indizi, solo a colpi di pregiudizi, falsità e menzogne, 757 personalità firmarono quella lettera vergognosa, pubblicata dall'Espresso nel giugno del 71. Non si può dunque attribuire solo a Fo quel che fu il pensiero dominante, politicamente correttissimo dell'epoca. Chi aveva un nome e un pizzico di prestigio da spendere puntò il dito accusatore contro quel disgraziato in uniforme che si era trovato a dover indirizzare le indagini su una strage senza precedenti. Che fa da spartiacque alla nostra storia. Fu un atto d'accusa corale e dunque ancora più sconvolgente perché l'intellighenzia tutta, tolti Giampaolo Pansa che non volle unirsi a quella lenzuolata e pochi altri, isolo' quel commissario, poi puntualmente riabilitato come capita nel nostro Paese quando il vento gira.

Questo scenario non deve portare naturalmente a una semplificazione della successiva tragedia: fu Lotta continua e solo Lotta continua ad ammazzare Calabresi, eliminato da Ovidio Bompressi sotto casa, in via Cherubini, la mattina del 17 maggio 1972.

Quel che colpisce è che 16 anni dopo, nel 1988, quando Marino portò la sua crisi di coscienza fino al pentimento e alla confessione, quando insomma furono arrestati Adriano Sofri e Giorgio Piestrostefani, il più accanito nell'attaccare Marino fu ancora una volta il giullare ormai prossimo al Nobel. Fo definì Marino sobriamente un «coglioncione» e scrisse inseguito un testo, «Marino libero! Marino è innocente!», in cui enumerava le 120 bugie del pentito. Balle presunte, molto presunte perché il processo, pur fra colpi di scena, si chiuse con la condanna degli imputati. Ma nessuno o quasi, nemmeno Fo che si sappia, ha chinato il capo e ammesso eccessi e sbagli dai risvolti drammatici. Quel pentito, che aveva portato sulle spalle la solitudine del rimorso, fu trattato fino alla fine come un appestato. Da tutti ma non dalla vedova del poliziotto, Gemma Calabresi che compone la postfazione di quel libro.

Un gesto straordinario e coraggiosissimo, quel che è mancato ai nostri bardi e poeti per troppo tempo.

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