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Quei replicanti degli anni '70 che si riconoscono in Hamas

Reinterpretano i vecchi dogmi con l'estetica di Instagram. E non stanno con le Mahsa Amini, ma con chi le opprime

Quei replicanti degli anni '70 che si riconoscono in Hamas

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Quei replicanti degli anni '70 che si riconoscono in Hamas

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Stanno qui e le loro parole sembrano ciclostilate da anni lontani. Sono gli stessi occhi di allora, affamati di piazza, con il rancore assoluto verso le proprie radici. Si sentono un branco, ma sono un gregge e alzano i pugni chiusi e giurano vendetta, resa dei conti, rivoluzione. Le frasi che urlano sono le stesse di quando eri bambino. Da quale ferita del tempo sono usciti questi replicanti? Non c'è, forse, una risposta sensata. Sono usciti da un passato che non hanno mai conosciuto e replicano senza memoria gli slogan, le bandiere, i gesti, le smorfie sul volto e la visione del mondo di gente che si avvicina agli ottanta.

Li vedi ventenni, in corteo, per le strade di Roma e di Torino, senza il piombo e il bianco e nero, con i vestiti anni '70 reinterpretati dai cataloghi di Instagram e Tik tok e minacciano chi indossa una divisa. Se la prendono con l'assessore regionale a portata di mano: «Marrone fascista sei il primo della lista». Se la sono tramandata in tutti questi anni, un po' come tutto il resto, come l'odio viscerale contro ciò che puzza di Occidente, di America, di mercato, senza sentire un minimo di contraddizione verso la vita che portano a spasso.

Sì, certo, anche adesso sono una minoranza, metropolitana, chiassosa, sempre sul fronte del palco e convinta per arbitrio ideologico di rappresentare il tutto. La Palestina ora è la nuova terra promessa. Ci si sentono a casa, condividendone il dolore, fino a rivendicare sottobanco le ragioni di Hamas. È l'occasione che aspettavano per acquartierarsi in un'appartenenza. Nessun dubbio su chi siano i buoni e chi i cattivi. «Israele il nuovo nazismo». Non li sfiora il paradosso e così cantano, rispolverando da qualche soffitta un testo messo in musica da Umberto Fiori, vecchio chitarrista degli Stormy Six, progressive rock dalle sfumature country, che qualcuno ancora ricorda al concerto del Parco Lambro del 1975. «Abbiamo alzato il rosso, il verde, il bianco e il nero, stretto in pugno la bandiera: i colori di Al Fatah. Abbiamo alzato la bandiera partigiana della rossa Palestina accanto a quella del Vietnam». Dicono sia virale e qualche volta la cantano in piazza.

La Palestina porta in dote una certa simpatia per la civiltà islamica, da preferire senza dubbio al tiranno americano, ribadendo il senso di colpa dell'Occidente verso il resto del mondo. E qui viene da chiedere come in fretta siano pronti a rinnegare i diritti Lgbt e tutte le lettere che vengono dopo. Ti aspettavi di vederli in piazza per Mahsa Amini, ammazzata di botte per il no a un velo sulla testa, una loro coetanea. Invece no, stanno con chi lapida chi non si allinea alla morale di Dio.

I nipotini del comunismo pregano Allah, è come se il muro di Berlino non fosse mai caduto. Non è rimasto nulla di quella notte di novembre e il violoncello di Mstislav Rostropovich non suona più. Smarrito, disperso, svanito. È rimasto quello che il Muro sembrava aver sepolto.

Hanno vinto quelli che avevano perso, che hanno continuato a narrare nel sottosuolo la vecchia promessa, totalitaria, di un paradiso in terra.

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