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Quell'epico assalto finale simbolo di tutte le vittorie

di Giordano Bruno Guerri

L a battaglia in corso a Mosul è, militarmente, uno scontro insignificante fra qualche centinaio di disperati/esaltati e un esercito che li circonda senza scampo. Ma ha un significato enorme dal punto di vista politico e umano per noi, che da troppo tempo subiamo il terrore dell'Isis. Il nemico che mette le bombe nelle nostre discoteche, che investe con i tir la nostra gente assiepata in festa, che ogni giorno ci costringe ai controlli negli aeroporti, che ci fa temere a ogni viaggio, quel nemico sta per essere vinto nella sua capitale. Non per questo cesserà il pericolo, anzi c'è da temere una ritorsione: sono gli eventi che riguardano le strutture della società a determinare i grandi cambiamenti nel lungo periodo, le battaglie decidono solo per un breve periodo il corso della storia.

Quello di Mosul dunque non è uno scacco matto, anche se tutti noi proveremo una sensazione di epico trionfo quando vedremo le truppe in divisa entrare nella roccaforte distrutta, la sconfitta negli occhi dei prigionieri, una bandiera amica sventolare là dove fino a un minuto prima si annidava il terrore. È l'emozione che i vincitori hanno sempre provato in ogni luogo, in ogni tempo al momento dell'assalto finale di una vittoria anche soltanto simbolicamente decisiva. Simbolo della Seconda guerra mondiale è la bandiera sovietica che un soldato russo issa in cima al Reichstag tedesco nei primi giorni del maggio 1945, in una città completamente distrutta. Hitler si è ucciso il 30 aprile, la battaglia di Berlino è costata 135mila morti ai sovietici, 125mila all'esercito tedesco, più 95mila civili: ma il ricordo che ogni generazione ne serberà per sempre è quella bandiera trionfante, che pure porterà altri lutti, altri pericoli. Potremmo fare molti esempi del genere. La battaglia di Poitiers, nel 732, che fermò l'invasione mussulmana; la caduta di Costantinopoli e la fine dell'impero Bizantino, nel 1453; la battaglia di Yorktown, che concluse la Rivoluzione americana nel 1781; la battaglia di Stalingrado del 1942-43, con il suo lungo assedio e il suo milione e mezzo di caduti, secondo alcuni computi. Per non rattristarci troppo, meglio fare un salto indietro di 25 secoli, eccoci a Maratona.

Sfido a ricordare esattamente e subito chi, e per che cosa, si combatteva. L'ho dovuto ripassare di recente con mio figlio in quinta elementare, e entrambi ci siamo emozionati poco alle vicende degli ateniesi, degli opliti di Platea, di Dario il Grande, dei generali Altaferne e Milziade. Però ci siamo entusiasmati in una ola che avrebbe commosso Minerva quando, alla fine della storia, l'emerodromo Fidippide parte di corsa per dare la notizia agli ateniesi, e corre per 42 chilometri morendo subito dopo, sfinito. Il messaggero Fidippide, un semplice soldato in quella battaglia che ha cambiato la storia, è tutto quello che ci resta del ricordo, dell'importanza di Maratona, tanto che ancora lo celebriamo in tutto il mondo, ogni giorno. È lui, una figura forse leggendaria, il vero vincitore, con il suo grido Nenikèkamen (Abbiamo vinto, ndr). Perché noi, spettatori di ieri, di oggi e di domani, abbiamo bisogno di simboli, di un logo o di un suono che ci emozioni e ci aiuti a ricordare. Chi sa quale sarà, a Mosul, quel simbolo. Ma soprattutto speriamo che sia un segno definitivo, finale.

Tutti abbiamo in mente un altro segno, che sembrava la liberazione da un incubo, lì vicino: la statua di Saddam Hussein abbattuta il 9 aprile del 2003. Ci sembrò la fine, invece era l'inizio di un nuovo incubo.

@GBGuerri

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