nostro inviato a Pomigliano d'Arco
Ha messo la sua faccia arrabbiata davanti alle telecamere delle Iene. Ma è solo l' inizio.
Salvatore Pizzo, per tutti Sasà, ha 39 anni, un corpo da peso massimo e l'aria spiegazzata di chi se la passa male. «Io lancio un appello al ministro del lavoro Luigi Di Maio perché mi aiuti a ritrovare un posto e la dignità». La frase viene troncata, mentre l'uomo passeggia nervosamente avanti e indietro, ma il senso è fin troppo chiaro: le certezze sono andate smarrite come valigie nel 2011, quando Di Maio padre lo scaricò dopo alterne vicende e lui perse l'aggancio con l'Ardima, la società della famiglia del vicepremier.
Siamo al Parco delle Acque, oasi verde nella selva di palazzine grigiastre. «Io ho tre figli e una moglie da mantenere, ma non sono uno sciacallo, non sono un avvoltoio - mette le mani avanti Sasà. - Però è dal 2011 che campo come ambulante, è dura, è dura, e non mi sta bene sentire sempre questo ritornello sulla famiglia Di Maio, la famiglia onesta, la famiglia perbene, la famiglia. Io prendevo 1.200 euro al mese, tutti in nero, e alla fine sono stato buttato a mare».
In quel periodo l'Ardima era formalmente della moglie di Antonio, Paolina Esposito, ma Sasà ricorda solo il papà del vicepremier. «Lui non veniva mai nei cantieri, era sempre in giacca e cravatta. Non gli parlo e non lo vedo da sette anni e non ho mai conosciuto nemmeno Luigi», il leader 5 Stelle che nel 2014 ha rilevato il 50 per cento delle quote societarie.
Pizzo cerca di non farsi travolgere dal clamore che lui stesso ha provocato: «Non sono un accattone, ma mi sono stufato di tutte queste prediche. Il Ministro del lavoro pensi a un poveraccio che il padre trattava in questo modo».
E Sasà ripete i nomi dei tre ex colleghi che in quegli anni avrebbero lavorato senza risultare, del tutto o parzialmente, nella solita Ardima: Mimmo, Giovanni e Stefano.
Difficile stanarli, ma alla fine Mimmo Sposito, sia pure a fatica, qualcosa dice. E non è poco: «Io facevo quattro ore al giorno in chiaro, in regola, e altre quattro in nero. Cosi ho fatto causa per avere giustizia». Giustizia contro la famiglia Di Maio. «Mi devono dare quello che mi spetta». Possibile, viene da chiedersi, che il capo politico dei grillini ignori tutto quel che succedeva alle porte di casa sua, nel perimetro della società che ora è, per metà, sua?
Quattro persone, almeno quattro se questi racconti saranno confermati, effettuavano prestazioni non regolari. Poi salta fuori un procedimento davanti al giudice del lavoro e chissà che altro. Una causa non è un'intervista e non si può liquidare schiacciando il tasto del telecomando. «In primo grado, al tribunale di Nola nel 2013 racconta l'avvocato Ignazio Sposito, solo omonimo del muratore - abbiamo chiesto 40 mila euro ma abbiamo perso. Il giudice togato che aveva iniziato il procedimento è stato sostituito da un giudice onorario che alla fine ha ritenuto non provato quel che chiedevamo. Ora puntiamo sull'appello che si svolgerà a Napoli nel 2020. In aula a Nola veniva sempre il signor Antonio anche se l'Ardima era passata alla moglie Paolina». Si vedrà.
Mimmo si congeda: «Mi aspettavo che questa storia finisse prima, ma ho fiducia nella magistratura». Antonio Di Maio invece viene scovato sotto casa dalle telecamere del programma Stasera Italia e mostra alcuni faldoni: «Avrete tutte le carte, eccole qui». L'imprenditore, dunque, si difende e annuncia una discovery dei documenti che proverebbero la sua correttezza.
Ma intanto Sasà conferma un altro dato di cui il Giornale ha dato conto in questi giorni: «La sera, quando staccavamo e lasciavamo i cantieri, il camioncino e gli attrezzi dei muratori venivano ricoverati quasi sempre
nella proprietà di famiglia, a Mariglianella». Nei terreni in cui sono spuntati manufatti che non sono in linea con i dati catastali. E qui il filone sugli operai fantasma s'intreccia con quello sui presunti abusi edilizi.
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