Già le riprese dall'alto sulla villa di Brentwood grondante luminarie natalizie, trasfigurata poche ore prima in teatro della carneficina dei suoi proprietari, aveva in sé qualcosa di disturbante. E poi quel Brentwood, rievocativo dello stesso distretto di LA dove venne trovata morta nel suo letto l'icona universale e indimenticabile della solitudine nascosta sotto platino e paillettes, Marylin Monroe. Stavolta a svelare la divergenza tra sogno e realtà sono Rob Reiner e sua moglie Michelle. Di lui ricordiamo forse il nome sui titoli di testa di film memorabili, ma è la tragedia che ce lo fa scoprire produttore, attore e caratterista, attivista politico, poliedrico artista che a quasi 80 anni non smette di sperimentare, esemplare erede della grande tradizione ebraica che mescola commedia e tragedia, amico di celebrità che lo descrivono senza riserve come uomo di eccezionale generosità, e oltre tutto questo anche un buon marito e padre: quattro figli, uno dal primo matrimonio e tre dal secondo. In questa vita che pare adattata da un ambizioso sceneggiatore svendutosi all'enfasi esagerata anche senza paillettes a confondere la vista, spunta un estraneo diamante grezzo: Nick. È il figlio che non c'entra niente con il resto della storia, un personaggio catapultato nella trama principale ma avulso dal copione. Si droga, vive per lunghi periodi come un barbone. Ogni tanto torna a casa come ingombrante, ormai seriale, figliol prodigo. Grazie alla fissazione Yankee di "naming" qualsiasi cosa, Nick entra a pieno merito nella schiera di "figli di", rinominati "nepobaby". Nepobaby guastati però, rotti, malfunzionanti, talvolta impresentabili.
Sono tanti, e hanno cognomi che fanno dubitare che possano essere davvero figli di Sheen, di O' Neil, Douglas, Brando, Newman, Hanks, Cage. Fra loro c'è chi è stato arrestato per narcotraffico o per guida in stato d'ebbrezza, chi ha percosso moglie e figli, chi ha aggredito le forze di polizia, c'è quello che ha scritto memoir sulla propria infanzia svelando l'inverosimile crudeltà degli illustri genitori e quella che si è data all'hard porn mantenendo per dispetto il cognome del padre. Ciò che li accomuna è l'esser nati in una condizione privilegiata, figli di persone famose che grazie a notorietà e ricchezza avrebbero potuto ottenere a titolo gratuito una vita piena di splendide opportunità. E invece eccoli lì, un esercito di disperati offerti in pasto al mondo e tramandati ai posteri attraverso le impietose foto segnaletiche scattate dopo l'arresto, con l'aggravante di catalizzare la riprovazione biliosa globale rispetto all'ingratitudine di chi, nato favorito dalla sorte, butta via la sua fortuna, con tanta gente che invece ne avrebbe bisogno. Ah, fossi stato io al suo posto...Imperdonabile. L'altro giorno uno di loro è entrato nella casa addobbata a Natale e ha ucciso i suoi genitori. Il potente mondo narrativo, fino ad allora solo lievemente contagiato dalla comparsa irrilevante, si è improvvisamente ribaltato. E la sceneggiatura smarrita. L'immagine finale di Jay Kelly si chiude su uno sfiorito George Clooney, nel film attore in vena di malinconia, che chiede di poter "rifare la scena". No, è la risposta.
Perché nella "IRL", quella "in real life" catalogata dai soliti maniaci delle schedature, è possibile girare soltanto in "one shot", siano gli attori bravi e meno bravi, famosi o sconosciuti. È un piano sequenza ininterrotto, non contempla tagli né montaggio e le fantasticherie dello sceneggiatore, così come i sogni rancorosi della platea, si devono arrendere: stavolta al cordoglio e alla compassione.