Il mio Pd è diverso. Fa il verso a un noto ritornello pubblicitario, il primo intervento del «senatore di Scandicci» nell'aula che avrebbe voluto ridimensionare ad assemblea di sindaci e governatori. Però l'effetto è un po' straniante, visto che si rivolge a un «premier che può piacere, ha uno stile diverso da Di Maio e Salvini» e che, allo stesso tempo, accomunerà a se stesso in quanto «non eletto dal popolo, potrei dire un collega, ma nessuno le nega la legittimità perché non ce n'è motivo». Il mio Pd è un'«altra cosa», è il ritornello scelto da Matteo Renzi redivivo per concedere all'apolitico Conte (almeno) il beneficio d'inventario. «Non avrà la nostra fiducia, ma avrà sempre il nostro rispetto», rimarca Renzi che con i suoi si dichiarerà sorpreso per «l'opposizione costruttiva chiesta da Conte: ma lui che ne sa? Non era parlamentare e non sa che cosa hanno fatto Lega e M5S nella passata legislatura». Cerca di spiegarglielo, negando che il Pd possa mai comportarsi in modi altrettanto sconsiderati: «Non occuperemo mai i banchi del governo, mai quelli della presidenza, non insulteremo mai i ministri, mai li tacceremo di essere mafia, mafia, mafia...».
Eppure, per tutta la giornata, soprattutto durante l'intervento di Conte, dovrà faticare non poco per tenere buoni i suoi, pronti a sussultare, a inveire, a interrompere. Fino al cartello preparato da Faraone per paragonare Conte a «Cetto Laqualunque». Dente avvelenato che rischia di provocare addirittura un parapiglia, quando il capogruppo Marcucci cerca di lanciarsi contro la grillina Bottici, ma trova proprio l'ex leader a fare da paciere, moderando con ampi gesti delle braccia le intemperanze di un esercito in rotta e perciò avvelenato.
Nell'istituzione dove la ruota della sua fortuna cominciò a ruotare all'inverso, Renzi inizia la sua camminata nel deserto, capo di una sparuta opposizione di centrosinistra che vorrebbe diventare fronte anti-populista. Anche se «non vi siete presentati assieme alle elezioni, pensiamo che sarete la coalizione di domani, e noi siamo un'altra cosa. Pur diversi, avete lo stesso metodo di violenza verbale». Nel mirino ci sono i vice-premier, i Salvini e Di Maio che l'hanno strigliato durante il suo governo e (soprattutto) sbaragliato nei voti. Il loro «inciucio», dice, ora si chiama «contratto scritto con inchiostro simpatico e garantito da un assegno a vuoto». Non fa sconti: a Salvini perché già «crea un clima incendiario», a Di Maio perché ha detto che lo Stato siamo noi: «Ma lei non è lo Stato, voi siete il potere e non avete più alibi». Tanto per capire che aria tirerà, Renzi annuncia una richiesta di chiarimenti per la ministra della Difesa al Copasir, «per una cosa che lei sa bene».
Si allude al controverso curriculum della Trenta (compreso il ruolo in una società per il reclutamento di contractor): più che una minaccia, sembra una ritorsione. E primo round di una sfida infinita, che si giocherà altrove.
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