Controcultura

Romanzieri e politica: ecco gli onorevoli scrittori

In Parlamento perfino Arbasino, Moravia e Moravia rimasero zitti

Romanzieri e politica: ecco gli onorevoli scrittori

Bei tempi quelli del Regno. Col mutare del secolo, Gabriele D'Annunzio, «il candidato della Bellezza», eletto deputato nel 1897, mutò casacca. Il «salto della siepe» accadde il 24 marzo del 1900. Il Vate s'alzò dagli scranni della Destra, attraversò il Parlamento, per sedersi tra le falangi della Sinistra. «Da una parte vi sono uomini morti che urlano e dall'altra pochi uomini vivi ed eloquenti. Come uomo d'intelletto, vado verso la vita». D'Annunzio aveva capito tutto, cioè due cose. Primo: che l'artista non deve lordarsi con la politica in effetti, dopo essersi fatto eleggere solo per il gusto, vincendo il disgusto nei riguardi della «Bestia Elettiva», D'Annunzio non combinò nulla, se ne fregava dell'affarismo politico. Secondo: che la politica è puro teatro, conta il «bel gesto» il fatidico «salto della siepe» più che le buone intenzioni o il genio legiferante.
Bei tempi quelli. Oggi, invece, che ci prepariamo ad andare al voto in tempi ideologicamente vacui, dove lo scrittore engagé è ingaggiato soltanto da bieche questioni di opportunismo intellettuale e di opportunità editoriali, dobbiamo sorbirci sui giornali le lezioni di Dacia Maraini («Cerchiamo di non cancellare la memoria che è il motore della nostra coscienza»: fatela senatrice a vita e chiudiamola lì), le intenzioni di voto di Roberto Saviano (sta con Emma Bonino, perché «ha combattuto, sempre»), le sparate di Mauro Corona («Grillo gli farà un mazzo così a questi sapientoni del nulla», frasi che oggi hanno un afrore demodé)... Quanto ad Alessandro Baricco, figuriamoci se ci mette la faccia, basta la penna come starlette del renzismo che fu. Spin doctor, sì. Ma non oltre.

Con l'avvento della Repubblica la politica è diventata un mestiere redditizio. I partiti arruolano gli scrittori come megafoni di ovvietà. Il primo a essere arso al rogo del perbenismo fu Massimo Bontempelli, geniale scrittore, ora malauguratamente in oblio. Fascista critico fu espulso dal partito nel 1938 Bontempelli fece, come D'Annunzio, il salto della quaglia. Nel 1948 è eletto per il Fronte democratico popolare, l'alleanza tra comunisti e socialisti. Per la Repubblica, però, l'antica appartenenza fascista dello scrittore è un'onta incancellabile: il 2 febbraio 1950, con rara severità, l'elezione dello scrittore viene annullata per 112 voti contro 101. Il cavillo politico fu un'antologia scolastica, nel 1935, dal titolo Oggi, curata da Bontempelli: tanto bastava per l'accusa di «propaganda fascista». Non bastarono le parole di Umberto Terracini, già Presidente dell'Assemblea costituente («L'antologia redatta dal Bontempelli era destinata allo studio della lingua italiana»), per evitare allo scrittore il massacro politico. Così, se il fantomatico Carlo Dossi, fedelissimo di Francesco Crispi, Console generale a Bogotà e Ambasciatore ad Atene, da una parte piglia i soldi come politico e con l'altra sfotte la canonica malia del sistema statale italiano («Scopo della burocrazia è di condurre gli affari dello Stato nella peggior possibile maniera e nel più lungo tempo possibile»), Lidia Ravera, che ha messo le ali quanto a carriera politica, altro che Porci con le ali, ora è assessore alla Cultura della Regione Lazio, compila il catechismo dell'educanda: «Penso che devi trattare il bene culturale come se fosse una cosa tua, se una cosa è tua, te ne prendi cura».

Poi, per carità, sempre meglio gli scrittori in politica che i politici scrittori (da Walter Veltroni a Dario Franceschini): almeno non fanno danni, fanno nulla. Dispiace vedere come l'attività parlamentare abbia messo la museruola al talento linguistico di Alberto Arbasino eletto nel 1983 tra le file del Partito repubblicano che mette la firma su fatue «norme per la lotta contro la fame nel mondo» (7 aprile 1984), «per l'introduzione dell'elettronica e dell'informatica nelle operazioni di voto» (11 luglio 1984) e «per la diffusione dell'attività sportiva» (13 marzo 1986). Se Edoardo Sanguineti, poi, fa l'avanguardista quando scrive, alla Camera eletto nel 1979, nell'esercito del Pci fa politica col tutù, non propone leggi ma controfirma quelle degli altri, sulla riforma dell'Enit, ad esempio (8 agosto 1979). Si segnala una sua alzata di scudi, il 27 aprile del 1983, sul «carattere episodico degli interventi» dello Stato «nel settore dello spettacolo» e «i ritardi nella corresponsione dei contributi». Solita Italia. Tolto Leonardo Sciascia, che alla Camera si trova bene come in camera da letto eletto nel 1979 tra i radicali, firma 52 progetti di legge in 5 anni riuscendo a fare letteratura della propria attività politica (L'affaire Moro ricalca l'attività, furibonda, nella commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani) e Paolo Volponi, politico volpone senatore comunista per due legislature, poi deputato per Rifondazione comunista: si scagliò contro l'impegno nella Guerra del Golfo, contro la tecnologia come «ideologia» proponendo di insistere sui «grandi indirizzi umanistici», e fece cascar soldi sulla sua città avita, Urbino lo scrittore, di solito, interpreta l'azione politica come una sosta all'autogrill dell'ozio.

Così, se Claudio Magris senatore dal 1994 al 1996 si occupa dei fatti suoi (le «Nuove norme in materia di reclutamento dei professori universitari»), Edoardo Nesi parlamentare dal 2013 per Scelta civica con Mario Monti sarà ricordato, più che per i romanzi, per aver messo la firma in calce al disegno di legge per l'«Istituzione della Giornata nazionale degli italiani nel mondo», non diversamente da Gianrico Carofiglio, senatore Pd dal 2008 al 2013, la cui azione politica, forse, ha dato un aiutino al successo editoriale, che si è preso a cuore era il 2009 la vicenda di Stefano Cucchi e passerà alla storia per aver freddato l'allora ministro della Giustizia Angelino Alfano, «un orologio fermo». I precedenti, d'altronde, hanno i galloni. Cosa fa Eugenio Montale nei quattordici anni di permanenza a Palazzo Madama come senatore a vita? Pochissimo. Il poeta premio Nobel, quello per cui «l'immane farsa umana/ non è affar mio», firma progetti di legge «per l'incentivazione dell'uso dell'energia solare», si occupa «del dibattito sui problemi posti dalla diffusione della droga in Italia», appoggia la legge Fortuna sul divorzio. Quanto all'impegno politico di Alberto Moravia, si spense durante gli anni in cui fu eurodeputato Pci. Non fece nulla. Non disse cosa. Ma firmò per il Corriere della Sera pagato, si suppone la rubrica «Diario europeo», in cui parlava di libri e propalava idee sue.

Ha ragione Ignazio Silone, già deputato alla Costituente per i socialisti, nel 1947: «Considero un segno di decadenza della democrazia questa importanza eccessiva che si dà alle elezioni». L'unico gesto politico d'artista che si ricordi è quello di Arturo Toscanini: eletto senatore a vita il 6 dicembre del 1949, si tastò i gioielli di famiglia, e firmò le dimissioni il giorno dopo.

Gli faceva orrore mescere il sacro col profano, l'arte con la vita pubblica, politica.

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