Eleonora Barbieri
Dice Salman Rushdie che la storia di Nero Golden e della sua famiglia è modellata sulla struttura della tragedia greca. «È inevitabile: fin dall'inizio, sai che qualcosa di terribile succederà». Cioè fin dall'inizio è chiaro che i favolosi Golden siano scappati da Bombay (lo scrittore chiama sempre così la sua città natale, mai Mumbai) a New York «per cercare di sfuggire al passato, e al destino che li attende a casa; ma è chiaro anche che non ci riusciranno». Quella che si consuma nei lussuosi Gardens, nel cuore del Greenwich Village, e che è raccontata nel nuovo romanzo dello scrittore, La caduta dei Golden (Mondadori) è «una tragedia privata, all'interno di una tragedia più grande».
Tutto comincia con gli attentati di Bombay, dieci attacchi simultanei (fra cui quello al Taj Hotel) avvenuti proprio nove anni fa: «L'undici settembre dell'India». Spiega Rushdie che «il terrorismo è certamente uno dei grandi temi del nostro tempo: qualcosa di molto potente nel muovere la storia». E la storia dei Golden parte proprio da lì, dal 26 novembre del 2008: «Ho cercato di capire chi avesse fatto che cosa e ho scoperto questa strana collaborazione fra il jihad in Pakistan e la criminalità mafiosa locale, la quale aveva chiaramente aiutato gli attentatori dal punto di vista logistico». Per i giornalisti della sua città - dice - era «normale». Ma poi, indagando ancora, lo scrittore (che, dopo avere vissuto per decenni in Gran Bretagna, dal 1999 è cittadino di New York) ha scoperto «altre connessioni»: «Un mix fra i ricchi della città, i gangster e il jihad: un triangolo maledetto, in mezzo al quale nasce Nero, il protagonista, risucchiato in questo mondo di criminalità, dal quale non riesce a uscire». Anche a New York, dove cerca di ricreare un mondo «privato» con i tre figli - il primo è un genio con la sindrome di Asperger, il secondo è un artista bohémien, mentre il più giovane è dolorosamente in cerca della sua identità, anche sessuale - il mondo delle tragedie più grandi irrompe nella sua vita. «Questo romanzo cerca di essere un'opera di narrativa molto contemporanea, e quindi il terrorismo non può mancare. È all'inizio e alla fine: come fossero le due parentesi all'interno delle quali si sviluppa quello che è più un affresco sociale, il ritratto dei singoli personaggi con le loro tragedie. Il terrore è il primo atto, e l'ultimo, anche se in mezzo c'è altro». Il potere, innanzitutto. The Golden House (titolo originale del romanzo) è la Domus Aurea, che Rusdhie ha visitato cinque anni fa e non ha più dimenticato; e Nero è il nome con cui il patriarca-padrino si è autobattezzato: «Chiamarsi come Nerone è un atto di sfrontatezza: si presenta come una grande individuo e, in qualche modo, cerca di definire il suo destino. Il suo nome non sarà mai rivelato, a differenza di quello di Gatsby». Il potere, dai tempi dei Cesari, passa nell'antichissimo mondo orientale e sbarca nel nuovo: «Ho sempre amato Svetonio, Le vite dei Cesari: un gossip eccezionale. Dentro il palazzo dei Cesari accadeva di tutto, venivano assassinate le madri, si dormiva con le proprie sorelle; ma da fuori era sempre il Palazzo, emblema stabile della continuazione di un potere consolidato. Così è il Palazzo dei Golden, il doppio volto del potere: da fuori dà l'impressione di grande potenza, ricchezza e privilegio; dentro è follia, tragedia e immoralità».
La caduta dei Golden è una storia «sull'immigrazione, senza la quale non esisterebbero New York, e neanche l'America»; sulle angosce di un «Paese diviso, in cui esistono realtà spezzate che non hanno più un terreno comune»; su Donald Trump (la cui vittoria è pronosticata, visto che è stato scritto prima delle elezioni), anche se non è mai citato: «Prima di tutto non volevo il suo nome nel libro. E poi il romanzo dice che lui è più un effetto che una causa: questo Paese così diviso c'era già prima, anche se lui è riuscito a sfruttare la situazione; ci sarebbe anche se lasciasse domani mattina; ci sarebbe stato perfino se avesse vinto Hillary Clinton».
È un romanzo molto politico: «Avrei sul serio il desiderio forte di scrivere un romanzo che non abbia a che fare con la politica, di scrivere solo del mondo privato, come si poteva fare nel XIX secolo. Ma oggi il pubblico permea il privato». Anche il politicamente corretto, con la sua censura, entra nelle nostre vite. Nei campus, o nei premi letterari: «Ovviamente io sono contro la censura. È scontato. Quando fu assegnato il Pen Award a Charlie Hebdo, scoprii che molti scrittori - scrittori meravigliosi, alcuni miei amici - erano contrari, in una discussione nella quale per me non c'era neppure discussione: alcune persone erano state assassinate per avere espresso le loro opinioni, per me era ovvio essere dalla loro parte.
Sembra ci sia un desiderio diffuso di dire che ogni affermazione critica verso l'islam sia sbagliata, perché opprime una minoranza. Ma molti non avevano neppure mai visto Charlie Hebdo, altrimenti avrebbero capito che non c'entrava niente con il razzismo. Per me è stato molto doloroso».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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