Un'unità psichiatrica nuova di zecca per studiare una nuova categoria di malati mentali: gli omosessuali. È l'ultima idea partorita dal governo di Mosca, sensibile all'avversione di Vladimir Putin per tutto ciò che esula da una sana (e preferibilmente guerriera) virilità del popolo russo. Novaya Gazeta, quotidiano di opposizione russo la cui redazione è stata costretta a riparare all'estero per sfuggire alle persecuzioni, informa che il ministero della Sanità ha ricevuto istruzioni direttamente dal presidente: l'ordine è fondare un istituto psichiatrico «per studiare il comportamento» di omosessuali e transessuali. L'obiettivo, però, più che di studio è repressivo. Il regime intende infatti organizzare percorsi di «cura» obbligatoria per queste persone: una serie di pratiche sia psicologiche sia fisiologiche («terapia di conversione») per ricondurle a una «sessualità normale». Appena tre giorni fa, la Camera bassa del Parlamento russo aveva approvato una legge che impedisce ai trans di cambiare l'indicazione del sesso nei documenti e di sottoporsi a «interventi medici». Ai dottori viene esplicitamente proibito di eseguire interventi per il cambio di sesso, salvo nei casi di correzione di anomalie congenite. Ma questo viene dopo che la «terapia di conversione» è già diventata pratica comune in alcune regioni della Russia. E siccome gli omosessuali vengono considerati poco meno che malfattori, il loro trattamento avviene in strutture dedicate alla «cura» - si può immaginare con quali metodi - di tossicomani e altri scarti della società. Questo avviene soprattutto in regioni del Caucaso a maggioranza islamica, come il Daghestan e la Cecenia. Nella Russia di Putin, del resto, un'idea malsana di tradizionalismo si applica anche al ruolo della donna in famiglia. Sono in vigore leggi che di fatto autorizzano i mariti a usare metodi violenti tra le mura di casa, limitando la possibilità delle mogli di denunciare alla polizia le aggressioni subite. L'idea di dedicare strutture psichiatriche alla repressione dell'omosessualità, però, rimanda inevitabilmente agli anni Sessanta e Settanta del Novecento, quando in Unione Sovietica rinchiudere i dissidenti nei manicomi era pratica giudiziaria comune.
Come aveva magistralmente spiegato Vladimir Bukovskij, che nelle unità psichiatriche degli ospedali russi aveva dovuto trascorrere lunghi periodi prima di essere scambiato con un prigioniero di opinione cileno nel '76, «se facevi capire che il regime sovietico, paradiso terrestre dei lavoratori, non ti piaceva, dovevi per forza essere un pazzo da curare». Nella Russia di oggi, che manda in galera per 15 anni chi si oppone all'invasione dell'Ucraina, si comincia con lo studio di questa strana gente fuori dai canoni sessuali, il resto seguirà.
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