I dati diffusi ieri dall'Istat sulle retribuzioni contrattuali confermano ciò che i numeri, più delle ideologie, raccontano da mesi: i salari in Italia stanno crescendo e lo fanno in modo più solido dell'inflazione. Nel periodo gennaio-settembre 2025, la retribuzione oraria media è aumentata del 3,3% rispetto allo stesso periodo del 2024, dopo il +3,1% dell'anno scorso. L'indice delle retribuzioni contrattuali orarie, a settembre, resta stabile su agosto ma cresce del 2,6% su base annua, con un incremento più marcato nella pubblica amministrazione (+3,3%) rispetto all'industria (+2,3%) e ai servizi privati (+2,4%). A trainare la crescita sono i comparti dei ministeri (+7,2%), della difesa (+6,9%) e dei vigili del fuoco (+6,8%).
Numeri che segnano un cambio di passo netto rispetto agli anni del governo Conte 2, quando la crescita salariale si fermava poco sopra l'1%. E lo sottolinea anche il capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera, Galeazzo Bignami, "I dati Istat diffusi oggi parlano chiaro: con il governo Meloni i salari sono tornati a crescere e le famiglie italiane hanno iniziato a recuperare il potere d'acquisto perso con i governi precedenti", ha commentato aggiungendo che "anche nel terzo trimestre 2025 le retribuzioni crescono più dell'inflazione; prosegue così il recupero di potere d'acquisto dei salari che, da ottobre 2023, aumentano più dei prezzi". Nel 2019, con il governo Conte 2 sostenuto da M5S, Pd e sinistra, la crescita è stata appena dell'1,1 per cento. "Il percorso di risalita non è ancora concluso, ma la tendenza è chiara: abbiamo invertito la rotta e continueremo a lavorare per rafforzare reddito e capacità di spesa delle famiglie italiane", conclude Bignami.
Certo, restano margini di miglioramento. Le retribuzioni contrattuali reali sono ancora l'8,8% sotto i livelli di gennaio 2021, ma la tendenza al recupero è ormai strutturale. Eppure, mentre il governo lavora a rafforzare il potere d'acquisto, la Cgil di Maurizio Landini (in foto) continua a mettersi di traverso. Dei 46 contratti collettivi oggi in vigore per la parte economica, solo 5 sono stati recepiti nel terzo trimestre (due nell'industria, uno nei servizi privati e due nella Pubblica amministrazione). Restano 29 contratti da rinnovare, che coinvolgono circa 5,6 milioni di lavoratori. E chi rallenta il processo non è certo Palazzo Chigi, che ha messo 20 miliardi sul tavolo per i rinnovi pubblici, ma chi - come la Cgil guidata da Maurizio Landini - sceglie la protesta permanente al posto della trattativa, da usare come ariete contro il governo Meloni senza curarsi delle aspettative dei lavoratori. Il paradosso è che poi il segretario Landini rilancia la protesta lamentado i salari bassi.
Il caso più recente è quello della sanità, dove 581mila professionisti attendono un aumento medio di 172 euro al mese: Fp-Cisl e Uil Fpl hanno firmato l'intesa all'Aran, la Cgil no. Lo stesso copione per enti locali, dirigenti pubblici, medici, vigili del fuoco. Laddove altri sindacati firmano e portano a casa risultati, la Cgil preferisce agitare bandiere, spesso per motivi che nulla hanno a che vedere con i salari: Gaza un venerdì, Ucraina il successivo, le armi la settimana dopo.
La lezione che emerge dai dati Istat è chiara: laddove si firmano i contratti, gli stipendi crescono e la distanza con l'inflazione si riduce. Dove invece prevale l'ostruzionismo ideologico, restano solo le attese, oggi arrivate in media a quasi 28 mesi per chi ha il contratto scaduto.
Il governo, intanto, prosegue sulla strada della responsabilità e del dialogo, sostenendo con risorse reali i rinnovi contrattuali e l'aumento del reddito netto attraverso i tagli al cuneo fiscale e alle aliquote Irpef.